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Spiagge, Consiglio di Stato. Il Comune può annullare permessi a costruire su concessioni scadute e deve uniformarsi al diritto europeo

 

Il Consiglio di Stato, Sezione VI, con la sentenza n. 3412 del 06/06/2018, affronta un tema di cui Chiamamicittà si occupato nei giorni scorsi riguardante l’ approvazione di un progetto edilizio presentato da un concessionario demaniale marittimo e l’atteggiamento successivamente assunto dall’ ente locale che, conformemente ai principi eurounitari ormai consolidati e applicati costantemente dalle giurisdizioni amministrative e ordinarie oltre che dalla giurisprudenza della Consulta, negava il rinnovo della concessione e di conseguenza, prima sospendeva i lavori, poi  annullava il permesso di costruire e infine ingiungeva la demolizione delle opere e il ripristino dello stato dei luoghi.

Tali provvedimenti erano impugnati al TAR Calabria (Catanzaro) che rigettava il ricorso e l’esame in sede di gravame passava al giudizio del Consiglio di Stato.

Vediamone i passaggi e gli spunti rilevanti in diritto.

Il caso riguarda la richiesta di un permesso di costruire rilasciato dal Comune di Catanzaro al titolare di uno stabilimento balenare al fine di eseguire lavori di ristrutturazione del lido in concessione.

Nel corso dell’esecuzione dei lavori veniva emessa dal Comune di Catanzaro l’ordinanza n. 15/08 che ne disponeva la sospensione, poiché non risultava “rinnovata la concessione demaniale marittima, scaduta in data 31.12.2007, propedeutica al mantenimento dello stabilimento balneare e alla esecuzione dei lavori di ristrutturazione dello stesso“. La società concessionaria con atto di diffida del 28 ottobre 2008, contestava l’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione comunale manifestando l’intenzione di voler proseguire il rapporto concessorio.

Con il provvedimento del maggio 2009, il Comune negava il rinnovo della concessione demaniale.

Tale provvedimento, oltre a quelli presupposti e/o connessi ut supra,  erano impugnato dalla società avanti il T.A.R. per la Calabria, sede di Catanzaro, deducendo che “ il Comune di Catanzaro avrebbe ignorato che le concessioni demaniali si rinnovano automaticamente per un periodo di sei anni, che non vi era stata la comunicazione di avvio del procedimento e che il Comune avrebbe impedito alla ricorrente di completare i lavori edili di ristrutturazione e di svolgere la sua attività imprenditoriale, determinando danni quantificabili in un ammontare complessivo di € 752.284,76 “.

Il T.A.R. per la Calabria, sede di Catanzaro, con la sentenza n. 1050 del 20 novembre 2013, rigettava il ricorso, ritenendo che, alla data del 31 dicembre 2007, la concessione demaniale oggetto di causa fosse scaduta, non potendo trovare applicazione la norma con la quale erano state prorogate ex lege le scadenze delle concessioni, per contrasto con il diritto comunitario.

Con il gravame all’attenzione del Consiglio di Stato, l’appellante deduceva “la violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 18, del d. l. 30 dicembre 2009, n. 194 e contestava la statuizione del T.A.R. per la quale l’art. 1 del d. l. n. 400/93, convertito nella l. 494/93, deve essere disapplicato per contrasto con il principio comunitario sulla libertà di stabilimento “.

Secondo l’appellante “il legislatore italiano, d’intesa con l’Unione Europea, avrebbe individuato un regime transitorio per consentire il passaggio di tutte le concessioni demaniali nel nuovo regime in fase di adozione, conforme ai principi comunitari. Ne deriverebbe che tutte le concessioni demaniali, anche quelle che abbiano eventualmente fruito del rinnovo automatico previsto dall’art. 1 del d. l. 400/93, sarebbero prorogate di diritto al 31 dicembre 2020 “.

Il Consiglio di Stato dopo aver ricostruito l’ iter legislativo delle vicissitudini che hanno interessato le concessioni demaniali a scopo turistico ricreativo ( rinnovi, proroghe, abolizione del diritto di  insistenza ) fino alla fondamentale ed inequivocabile sentenza della Corte di Giustizia del 14 Luglio 2016 che ha fornito l’ interpretazione vincolante per i giudizi nazionali dell’ art. 12 della Direttiva Bolkestein e degli art. 49, 56 e 106 T.F.U.E, ha confermato la correttezza della decisone del T.A.R. il quale rilevava il contrasto della  normativa interna (nella previsione di proroghe ex lege)  con i “pacifici principi di diritto eurounitario ” e  pertanto  ne sanciva l’ incompatibilità.

Essendo la vicenda anteriore alla ulteriore estensione delle scadenze al 2034 disposta dalla legge di stabilità del 2019 è ovvio che tale norma non è stata presa in considerazione per la decisone del  caso in esame.

Interessante l’ennesimo richiamo alla sentenza della Corte Cost. n. 180 del 2010, che come ricorderete ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’ art. 1 della legge della Regione Emilia-Romagna 23 luglio 2009, n. 8, (Modifica della legge regionale 31 maggio 2002, n. 9 – Disciplina dell’esercizio delle funzioni amministrative in materia di demanio marittimo e di zone di mare territoriali in attuazione della legge 27 dicembre 2006, n. 296), che consentiva ai concessionari demaniali la possibilità di richiedere chiedere, entro il 31 dicembre 2009, la proroga della durata della concessione fino ad un massimo di 20 anni.

Tale pronuncia evidenziava “come la proroga o il rinnovo automatico, determinando una disparità di trattamento tra operatori economici mediante preclusioni o ostacoli alla gestione dei beni demaniali oggetto di concessione, violino, in generale, i principi del diritto comunitario in tema di libertà di stabilimento e tutela della concorrenza”.

Ma i punti maggiormente significativi della pronuncia sono altri. Esaminiamoli:

  • Le disposizioni legislative citate, con le quali si prevede un rinnovo automatico delle concessioni balneari (o una proroga ex lege delle stesse), non possono essere considerate come fonti legali di un ipotizzato provvedimento amministrativo tacito, ma si sono limitate ad incidere, ex lege, sugli effetti giuridici di provvedimenti amministrativi già emanati, senza la necessità che l’amministrazione eserciti alcun potere e senza alcuna possibilità, pertanto, di configurare la sussistenza di un provvedimento tacito di rinnovo o di proroga che, se emesso, ha natura meramente ricognitiva delle conseguenze previste dalla legge (conseguenze che si producono, qualora siano compatibili col diritto europeo). È quello che abbiamo sempre sostenuto: non esistono poteri, facoltà dei comuni di prorogare alcunché. Ergo: gli atti di annotazione dei comuni (timbri) producono effetti (“conseguenze previste dalla legge”) solo e nel momento in cui “siano compatibili col diritto europeo”.  E ‘una sorta di cartellino “arancione” agli Enti Locali.
  • Non sono necessarie istanze di parte affinché un organo giurisdizionale disapplichi una norma interna in contrasto con il diritto eurounitario. Nella fattispecie il T.A.R., “constatata la violazione del diritto comunitario, l’ha disapplicata, nell’ambito di un’attività di individuazione della norma applicabile riservata al giudice, conformemente al noto principio iura novit curia (art. 113 c.p.c.). Ciò nel doveroso rispetto dei principi di primazia del diritto comunitario, che ne impone la puntuale osservanza ed attuazione, senza necessità di attendere la modifica o l’abrogazione delle disposizioni nazionali contrastanti da parte degli organi nazionali a ciò preposti” (cfr. Corte giust. 5 dicembre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01).
  • La mancata applicazione della disposizione interna contrastante con l’ordinamento comunitario costituisce “un potere-dovere, per il giudice, che opera anche d’ufficio” (cfr. Cons. St., Sez. V n. 1219 del 2018; Corte Cass., 18 novembre 1995, n. 11934), al fine di assicurare la piena applicazione delle norme comunitarie, aventi un rango preminente rispetto a quelle dei singoli Stati membri e tale dovere sussiste indipendentemente dal fattore temporale e quindi dalla mera circostanza che la norma interna confliggente sia precedente o successiva a quella comunitaria (cfr. Corte giust. 9 marzo 1978, causa 106/77).
  • Le statuizioni della Corte di Giustizia, le quali chiariscono il significato e la portata di una norma del diritto dell’Unione, “possono e devono essere applicate anche a casi diversi rispetto a quelli oggetto del rinvio, aventi le stesse caratteristiche di quello che ha dato origine alla decisione della Corte” (cfr. Cons. St.,Sez. V n. 1219 del 2018; Cass., sez. I, 28 marzo 1997, n. 2787; Corte Cost., 23 aprile 1985, n. 113; Corte Cost., ord. 23 giugno 1999, n. 255).

Il Consiglio di Stato chiude la motivazione rimarcando l’ammonimento a tutte le pubbliche amministrazioni nei confronti delle quali, riportandosi al proprio consolidato indirizzo (cfr. Cons. St, Ad. Plen., 25 febbraio 2013, n. 3250; Cons. St., sez. V, 31 maggio 2011, n. 3250), “grava l’obbligo di attivare procedure competitive ogni qualvolta si debbano assegnare beni pubblici suscettibili di sfruttamento economico. Infatti, la mancanza di tale procedura introduce una barriera all’ingresso al mercato, determinando una lesione alla parità di trattamento, al principio di non discriminazione ed alla trasparenza tra gli operatori economici, in violazione dei principî comunitari di concorrenza e di libertà di stabilimento”.

È chiaro che questa ennesima pronuncia fornisce ulteriori parametri conoscitivi sulla legittimità del proprio operato alle pubbliche amministrazioni e ai pubblici funzionari che quotidianamente emettono “determinazioni” e/o “provvedimenti” (nel caso di specie un titolo edilizio poi legittimamente annullato) che abbiano comunque attinenza con le concessioni demaniali marittime a scopo turistico ricreativo. E maggiore è la conoscenza e più difficoltosa (e pericolosa) può rivelarsi l’attitudine ad assumere “comportamenti” (rectius: emanare atti) totalmente disallineati ai principi cogenti del diritto eurounitario.      

Il dispositivo della sentenza

Roberto Biagini

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