Goffredo Bettini, parlamentare europeo del Partito Democratico, ha presentato a Rimini il suo libro “Agorà’, l’ago delle bilancia sei tu” (Edizioni Ponte Sisto). Con lui l’ex ministro dell Giustizia Andrea Orlando ed Emma Petitti, assessore regionale dell’Emilia Romagna. Un’occasione per ascoltare cosa si muove nel Pd in vista del congresso che si terrà a un anno dal tonfo elettorale. E ascoltarle da chi ha vissuto molte speranze e disillusioni, progetti e traguardi, riscosse e passioni.
Bettini, cosa deve fare il Pd in questo congresso?
«Con questo congresso dobbiamo indicare le ragioni della sconfitta così dura, storica, che abbiamo avuto il 4 marzo. Abbiamo fatto un grande errore a non confrontarci subito in un modo serio, schietto, franco. Abbiamo prolungato la stasi per mesi, con qualcuno che ha perfino ipotizzato di fare il congresso dopo le europee, Assurdità. Invece, finalmente, ora, anche se tardi c’è la sede per fare questa riflessione».
Lei che idee si è fatto?
«Ci sono due aspetti che convergono. Uno sicuramente è l’esperienza recente; la fase di Renzi. Attenzione, abbiano sicuramente governato meglio della destra. Quella di prima, che ci ha infilato nella crisi dalla quale noi contribuimmo a tirare fuori in Paese dalla bancarotta, e molto meglio di quella che vediamo oggi al lavoro, che sta facendo regredire l’Italia. Però deve anche essere chiaro, dopo aver tanto usato la parola “riformismo”, che razza di riformismo abbiamo praticato. Riformisti siamo tutti, quanto a scelta di cambiare il Paese con la democrazia, in maniera non violenta, graduale. Ma per una grande forza della sinistra riformismo è innanzi tutto accorciare le distanze fra chi ha e chi non ha. Cercare di eliminare le ingiustizie. Rendere la società più equilibrata, più armoniosa. E invece, dopo tanti anni in cui abbiamo governato anche noi, ci troviamo in una situazione dove le distanze sono aumentate, i ricchi sono più ricchi e i poveri sono più poveri. Sono 5 milioni i poveri, secondo l’Istat. E abbiamo una perdita di reddito da parte dei lavoratori, di chi è più in difficoltà. In queste fasce si è perso il 28% del reddito, mentre nel frattempo, come sappiamo, si sono accumulate molte ricchezze. E allora, se il riformismo è una parola vuota, gergale, che serve solo a dire che sei moderno, innovativo, se è il biglietto da visita per i salotti buoni, è una linea che ti fa perdere i voti dei ceti popolari e te li fa guadagnare ai Parioli. Invece il riformismo, io penso, è una pratica del conflitto democratico. Cioè, dev’essere uno scontro fra spinte e interessi diversi, dove una forza della sinistra deve cercare di cambiare la qualità della struttura del Paese, i suoi equilibri. E questo non l’abbiano fatto e dobbiamo cominciare a farlo».
Quota 100 e reddito di cittadinanza non vanno in questa direzione? Accorciare le distanze e restituire del reddito?
«No. Il reddito di cittadinanza non risolve, è privo di un criterio selettivo o ragionato. E poi umilia chi ha bisogno, che deve comprare questo e non deve comprare quest’altro, secondo le indicazioni di chi eroga sussidio, cioè il governo. Si dovrebbe, con sussidi, con aiuti, con sostegni finanziari anche molto diretti, arrivare in quelle parti di società che effettivamente soffrono e non hanno la possibilità di risollevarsi. Penso ai bambini abbandonati, all’infanzia povera. Oppure agli anziani che non hanno nulla. E che con il superamento delle famiglie tradizionali, sono veramente senza un appiglio. Un generico provvedimento che non riesce ad essere selettivo, resta incapace di intervenire in maniera intelligente. Perché soffre; anche in quelle zone di ceto medio, di piccola borghesia, ma in situazioni di solitudine, la cifra della nostra società, che alla fine sono zone di vera povertà».
«Sulla questione delle pensioni, va poi vista anche la sostenibilità di una manovra, sapendo bene una cosa: nostro dovere è pensare alle prossime generazioni. I margini maggiori chiesti dal governo Conte non sono indirizzati a nuovi investimenti, al Mezzogiorno, a uno sviluppo adeguato della ricerca, a un sostegno diretto alle zone del Paese veramente in difficoltà. Non è prevista una tassazione progressiva, ma una flat tax che è un regalo alle parti più ricche. Io non critico i decimali del deficit che vengono più meno superati: l’abbiamo chiesta noi la flessibilità in Europa. Il punto è come le utilizzi queste risorse. Se le utilizzi in modo strategico per il futuro del Paese, oppure cercando di mantenere delle promesse elettorali per poi finire a litigare su chi deve rinunciare alle proprie. Ed ecco che vediamo un governo allo sbando che sta cercando in maniera rattoppata di tornare indietro».
Tornando al Pd, nel suo libro lei indica ragioni che partono da lontano per la crisi di oggi. Addirittura dall’89?
«Sì, da quando è crollato il comunismo reale. E noi, sinistra italiana, per non far finire sotto le macerie gli ideali di liberazione umana, abbiamo cambiato quella parola, “comunismo”; ma non siamo riusciti mettere in campo una nuova visione del mondo. Siamo stati succubi dell’ondata neoliberista, della globalizzazione, dei suoi miti e dei suoi modelli. Dove lo stato è sempre un impaccio e il mercato va sempre bene e se si accumulano le ricchezze, poi naturalmente arrivano anche alle parti basse della società; questo non si è verificato. Non siano riusciti a mettere in campo una nostra visione della globalizzazione, dove anche i nostri valori, il nostro condizionamento potessero contare».
«L’altra data è il ’92, quando sono crollati i partiti di massa. Non fu raccolta l’invocazione di Enrico Berlinguer, quando con quell’intervista bellissima a Scalfari nell’81 pose la questione morale. Passarono gli anni Ottanta e alla fine, con l’estensione enorme della corruzione, dove la politica non è arrivata sono arrivati i magistrati. E noi non cogliemmo la portata storica del crollo dei partiti su cui l’Italia si reggeva, si fondava. Erano i quelli i canali di comunicazione fra cittadini e istituzioni e la loro scomparsa comportava il nascere di partiti nuovi e diversi, di istituzioni diverse. Mentre ancora il Pd, per quanto con una struttura impoverita e differente, è simile al Pci, alla Dc di un tempo. Non si è riuscito a mettere in campo quella che io chiamo le Agorà: uno spazio dove incontrarsi, confrontarsi, discutere e poi decidere, incidere, influenzare i gruppi dirigenti nelle scelte che compiono. Con la proposta, anche al congresso, di Agorà, intendo una forma partito orizzontale, che costruisca questi luoghi in maniera molto aperta. Dove noi torniamo a mettere i piedi nel fango delle trincee piuttosto che essere aerei e vedere la realtà col binocolo».
Intende spazi fisici o virtuali?
«Spazi fisici, insito molto su questo. Per me è una discriminante. Il digitale è importantissimo per informare e utilissimo soprattutto nei paesi autoritari dove l’informazione viene impedita. Ma la formazione di una persona non può essere affidata al digitale. Affidarvi la coscienza, la strutturazione interiore, può essere un errore madornale. Con il digitale ti muovi, pensi, comunichi, ma senza l’altro. E’ anzi l’espulsione dell’altro: tu puoi dire quel che ti pare e non paghi pegno, non hai un limite al tuo narcisismo, al tuo egocentrismo, alla tua volontà di potenza. Se l’altro ce l’hai di fronte, allora hai una vera esperienza umana, quella che ti struttura dentro, che ti fa costruire una tua identità matura. Mi pare che ci sia una vera regressione antropologica da questo punto di vista. E’ impressionante; e da qui deriva il diffondersi di forme abbastanza selvagge, rozze, di dibattito politico. Idee abbastanza stravaganti secondo cui non contano più neppure la cultura, lo studio, la scienza, per cui bizzaramente una tesi vale l’altra. Non c’è più la competenza, annullato il peso delle parole, inutile l’approfondimento e perfino la verifica del dato di fatto. Se noi affidiamo a questo la formazione, la regressione in atto aumenterà. E aumenterà la crisi della democrazia».
Matteo Renzi cosa rappresenta oggi per il Pd? Un problema? Un’opportunità? Un’alternativa?
«Renzi era partito con un’idea che aveva fatto prendere al Partito Democratico anche il 40% alle europee. Anche se il nome ‘rottamazione’ non mi è mai piaciuto, si aveva l’idea di voler cambiare a fondo la società italiana. Un’idea che raccoglieva la spinta, la rabbia che montava. E che poi è andata ai 5 Stelle e alla Lega. Perché una volta andato al governo, Renzi ha privilegiato un tipo di riformismo esercitato dall’alto, senza dialogo con la società, in maniera unilaterale. E se non veniva accettato dai lavoratori, da ceti e settori della società, era la società a sbagliare. La gente ha sempre torto e noi abbiano sempre ragione, ed ecco il disastro. Oggi penso che anche Matteo Renzi debba abituarsi a stare in una comunità e a convivere con un’esperienza comune dove lui non sia il primo. Io credo sia possible. Ma da quello che vedo, non è così. Mi pare piuttosto che abbia imboccato una strada di svalutazione totale del Partito Democratico. Ha detto che il Pd è il passato, lui pensa all’Italia. Disprezza il dibattito congressuale. Mi pare che si stia muovendo in una direzione completamente diversa. Ma il congresso non deve essere fatto su questo. Credo vada fatto sulle nuove idee da mettere in campo e io in questo senso appoggio Nicola Zingaretti. Che conosco, che è un buon amministratore, persona intelligente e democratica che sa lavorare in squadra e che ha alle spalle una bella storia. Ha vinto tre volte in elezioni dirette, ha avuto esperienze di politica estera. A lui vorrei affidare questo compito di ricostruzione del partito e della sinistra».