Il 9 gennaio 1846 si scava intorno all’Arco d’Augusto. A volere e dirigere le ricerche archeologiche è Luigi Tonini, allora 39enne bibliotecario reggente della Gambalunghiana.
La curiosità dello storico è indirizzata soprattutto a cosa esistesse prima del magnifico monumento voluto da Ottaviano. Si va dunque ad esplorare alla base dei due torrioni che ancora, in parte inglobati dalle case, si ergevano ai lati dell’Arco. Saranno demoliti fra il 1937 e ’39 quando si volle isolare isolare l’Arco snaturandone del tutto la funzione di porta della città.
Sotto i torrioni «da qualcuno giudicati opera dei tempi Costantiniani» si notano le antiche mura della città, «lasciando uno spazio tra l’un capo e l’altro di metri 15, 20, quanto appunto è quello occupato dall’Arco. Il quale, e per la differenza del piano, da cui spicca, e pel niuno collegamento delle sue fondamenta con esso muro, vi apparisce posteriore a tutta evidenza».
Non ci sono dubbi: prima dell’Arco d’Augusto esisteva una porta che occupava esattamente lo stesso spazio. Difficile che questa porta più antica fosse però costituita da un arco singolo; forse i fornici erano due, come a Porta Montanara ma con luci più ampie; oppure tre come nel cosiddetto Arco D’Augusto di Fano (in realtà non un arco trionfale, ma solo una porta della città). Purtroppo gli scavi di allora non consentirono di appurare questo particolare.
Secondo Tonini, «nella riparazione procurata da Augusto alla Flaminia, trovata forse questa Porta e vecchia e bassa per lo innalzamento del suolo (chè dovea spiccare dal piano antico di quella via, come si è visto spiccare da esso il muro urbano) dovette essere appunto allora atterrata per far luogo ad altra più conveniente. E poiché i punti fissi dei muro dovettero obbligare in certo modo l’Architetto ad occupare tutto quello spazio, venne probabilmente da ciò la necessità di dare all’Arco magnifico, che ancora abbiamo, quell’ampiezza di luce, che fra gli antichi lo fa singolare».
Così singolare che per tanto tempo ci si è chiesti come potesse essere chiusa quella che in definitiva era la principale porta della città.
Chiarissimo il messaggio propagandistico del primo imperatore: con lui si inaugurava la nuova era della Pax Augustea. Basta con le guerre civili che avevano insanguinato Roma per generazioni. E proprio ad Ariminum, laddove Cesare era entrato con atto sacrilego dopo aver varcato il limen del Rubicone e dove iniziava la via Flaminia che conduceva all’Urbe, andava ricomposta la pace, anche con gli dei. Ora quindi i cittadini romani potevano vivere talmente al sicuro da non aver neppure bisogno di chiudere le porte delle loro città.
Se non che, una porta sempre aperta per una città antica avrebbe comportato non pochi inconvenienti anche in tempo di pace, sia dal punto di vista fiscale che sanitario. Poco plausibile che almeno di notte non vi fosse alcun tipo di chiusura. Si sono ipotizzate allora barriere mobili, che con il passare del tempo, e lo svanire della pace, sarebbero state via via rafforzate.
Fino ad avere un vero, gigantesco portone? Non lo sappiamo. L’immagine più antica dell’Arco è il cosiddetto sigillo del Duca Orso, che dovrebbe risalire al X secolo (ma la sua autenticità non è certa): Arco e Ponte vi sono raffigurati in forma araldica stilizzata a rappresentare la città di Rimini e i dettagli non sono fedeli. Il Ponte di Tiberio ha infatti solo tre archi, mentre non è chiaro se sotto l’Arco esista un portone a due battenti o se si tratti di una croce cristiana; appare però già la merlatura.
E’ mistero anche su cosa ci fosse in cima all’Arco. Osservandone l’attico, gli studiosi hanno individuato la piattaforma che doveva ospitare certamente una grande scultura. Sulla base di alcune medaglie augustee, si è ipotizzato a lungo che fosse una statua dell’imperatore ritratto nell’atto di condurre una quadriga.
Secondo un’altra ipotesi, avanzata dal riminese Danilo Re, il monumento sarebbe stato coronato invece dai cosiddetti Bronzi di Cartoceto. L’ipotesi si fonda sull’identificazione dei personaggi ritratti in bronzo dorato: se davvero fossero Giulio Cesare, Ottaviano Augusto, la madre di Augusto Azia Maggiore e Giulia Minore, madre di Azia e sorella di Cesare, l’iconografia celebrerebbe la dinastia imperiale Giulia appena instaurata.
Il ritrovamento dei bronzi lungo la Via Flaminia fra Fano e il passo del Furlo si spiegherebbe con i saccheggi dei Goti, che proprio lungo questo percorso si ritirarono da Rimini sotto l’offensiva dei bizantini di Narsete fino alla sconfitta di Gualdo Tadino (552) dove lo stesso re Totila trovò la morte. Forse furono loro a ridurre a pezzi e seppellire le preziose sculture, sperando di recuperarle in un secondo tempo.
A quanto risulta, il grande fornice dell’Arco non fu mai murato, come accadde invece a uno dei due di Porta Montanara, neppure durante i turbolenti secoli delle guerre gotiche e longobarde. Continuò a svolgere la sua funzione di porta urbica fino a quando, realizzando una nuova e più ampia cerchia di mura, fu costruito al suo esterno un torrione con la nuova Porta Romana, (o di S. Genesio, o S. Bartolo), come poi fu chiamata, mentre l’Arco restava la Porta Aurea. La porta medievale sarà abbattuta alla fine del Settecento, essendo rimasta gravemente danneggiata dal terremoto del 1786.
Nella carta di Rimini della Biblioteca Vaticana (1660 ca.) è evidenziata la cerchia delle mura di Rimini con Porta S. Bartolo a presidiare il ponte sull’Ausa all’esterno dell’ArcoL’iscrizione consente ai posteri di sapere esattamente chi, quando e perchè volle tale meraviglia:
«SENATVS·POPVLVS[que·Romanus· / Imp·Caesari·Divi·Iuli·F·Augusto·Imp·Sept·] / COS·SEPT·DESIGNAT·OCTAVOM·V[ia·Flaminia·Et·Reliquieis·] / CELEBERRIMEIS·ITALIAE·VIEIS·CONSILIO·[Et·Auctoritate·Ei]VS·MVNITEIS»
«Il Senato e il popolo romano (dedicarono) al condottiero Cesare, figlio del divino Giulio, Augusto, condottiero per la settima volta, console per la settima volta designato per l’ottava, essendo state restaurate per Sua decisione e autorità la via Flaminia e le altre più importanti vie dell’Italia»
C’è poi l’apparato decorativo, dove compare al centro del fornice esterno la testa di un toro. Cosa significa? “A riverberare sia la fecondità della natura, ma anche, attraverso il giogo cui questo era sottoposto, a richiamare l’auctoritas e l’imperium augustei”, scrive qualcuno; a rappresentare “la forza e la potenza di Roma, paragonata appunto a quella di un toro”, sostengono altri. Anche le chiavi dell’arcata erano decorate con protomi taurine, “connesse probabilmente con la memoria di antichi riti di fondazione”, dicono altri ancora. Fatto sta che il toro compare ben raramente nella simbologia ufficiale romana.
Appare invece spesso njelle raffigurazioni quale segno zodiacale, Inoltre tale emblema utilizzato da parecchie legioni: III Gallica, IV Macedonica, VII, VIII Augusta, X Gemina, VI Victrix e forse VI Ferrata. Tutte ebbero strettamente a che fare con Cesare e Ottaviano; in particolare la IV Macedonica, reclutata fra Italici da Cesare subito dopo il passaggio del Rubicone, fu una delle prime a passare con Ottaviano contro Marco Antonio ed ebbe un ruolo decisivo nella guerra di Modena. Ariminum era stata fino ad allora innanzi tutto un presidio militare: si tratta del fregio di quel corpo?
Oppure il toro c’entra qualcosa con la città stessa, quasi totem municipale? O, ancora, richiama un qualche rito purificatorio, dal momento che per i Romani rappresentava la vittima sacrificale più preziosa, gradita in particolare a Marte? Buio assoluto.
La decorazione è completata da due semicolonne con fusti scanalati e capitelli corinzi, la trabeazione, il timpano e quattro clipei. Rivolti verso Roma, Giove e Apollo; verso la città, Nettuno e Minerva, se non è la stessa Roma in forma di divinità. Anche sul perchè di queste scelte iconografiche si naviga fra le ipotesi.
Un’unica certezza: quello di Augusto è il più antico Arco “trionfale” costruito dai Romani che sia giunto fino a noi, anche se anora assolve la funzione di porta e non fu edificato appositamente per un triumphum vero e proprio.