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8 febbraio 1852 – I patrioti riminesi sventolano il tricolore e finiscono in galera a San Leo

Il popolo scettico, disincantato, il popolo che “j’è tot cumpagn”, sono tutti uguali. Il popolo che amaramente osserva: “la giustizia la è fata a calzeta, la va du c’us tira ad piò” la giustizia è come la calza, va dove si tira di più. Certo. Ma il popolo sa, o sapeva, anche appassionarsi: per una fede, un ideale, una bandiera.

Al netto di ogni retorica, la bandiera è stata per l’Italia molto più che un simbolo astratto. Il tricolore è nato molto prima dell’Italia unita. E l’Italia si è unita intorno a quella bandiera, per la quale in tantissimi hanno messo in gioco la vita e molti l’hanno perduta. Per la sola bandiera, tanto era importante.

Giuseppe Garibaldi guida le camicie rosse al Volturno nel 1860

Non stupisce allora che tanti proverbi romagnoli parlino della bandira, bangiera, bandoira.

“Int al bandir l’è scret, che sempr’avlè andè dret, parchè la nistra vì, l’han torna mai indrì”, Nelle bandiere è scritto che sempre si vuole andare dritto, perché la nostra via non torna mai indietro.

“La bangiera un begna mai vultela, gnanca la faza un begn mei mudela“, la bandiera non bisogna mai voltarla, neanche la faccia bisogna mai cambiarla.

“Cla bandìra t’ adurè, sa qvela t’è da ste”, quella bandiera che hai adorato, con quella devi stare”.

Il popolo non sapeva e non sa di politica? “Partì un vo migh dì, andè in do cl’am frola, mo ciapè la mei vì, senza melta e ne piscola, par e ben de paes”, Partito non vuol mica dire andare dove mi frulla, ma prendere la via migliore, senza fango e pozzanghera, per il bene del paese”.

Anita Garibaldi muore alle Mandriole di Ravenna il 4 agosto 1849

Dopo la prima guerra di Indipendenza del 1848 e l’epopea della Repubblica Romana nel 1849, il sentimento patriottico in Italia è incontenibile. Nonostante le sconfitte e sebbene la popolazione rurale si senta estranea alle rivoluzioni scoppiate in tutte le città, qui l’unità e l’indipendenza della nazione uniscono aristocratici e borghesi, artigiani e studenti. Nei centri urbani, come a Rimini, anche le classi più umili si sentono parte dello stesso sogno. Basti vedere i condannati a morte riminesi del 1851, tutti di bassissima condizione.

Si dice spesso che il Risorgimento fu un fatto di minoranze, dato che la stragrande parte della popolazione italiana di allora era dedita all’agricoltura. Ma non dappertutto la maggioranza della gente viveva in campagna: non almeno nel Riminese, dove gli abitanti del contado e quelli dei centri urbani da sempre si sono sono all’incirca equivalsi.

Da quei centri (Rimini, ma anche Santarcangelo, Saludecio, Mondaino, S. Agata Feltria) in tanti erano partiti per combattere all’insegna del tricolore e avevano indossato la camicia rossa dei Garibaldini. Dunque è difficile sostenere che il Risorgimento fu un movimento di élites. E’ vero invece che le città lo vollero, mentre le campagne al massimo lo tollerarono. La miseria e la fame vi erano equamente distribuite, quando non prevaleva proprio nelle prime. 

Dopo il colpo di stato del 2 dicembre 1851, quando Carlo Luigi Napoleone Bonaparte con l’appoggio dei cattolici aveva dato data scalata al trono imperiale (si farà proclamare Napoleone III esattamente un anno dopo, anniversario dell’incoronazione di Napoleone I e della battaglia di Austerlitz), nello Stato della Chiesa la repressione contro i “liberali” non aveva avuto più freno.

Napoleone III

Ma, come scrive Carlo Tonini, «non ostante che la fazione Repubblicana avesse ricevuto per opera di Luigi Napoleone una sì grande percossa, pure i nostri, la notte fra l’8 e il 9 di febbraio del 1852, osarono dar segno di vita celebrando l’anniversario che in tal giorno cadeva della Repubblica Romana. E a tale effetto, sebbene fosse notte rischiarata da limpidissima luna, ruppero senza trovar contrasto le porte della torre dell’orologio in piazza Giulio Cesare, e su di essa torre inalberarono una bandiera a tre colori».

La porta della torre si può vedere ancora oggi, sotto il portico di piazza Tre Martiri accanto all’ingresso di palazzo Baldini.

La torre dell’orologio di Rimini in una stampa del 1790

«Ed un’altra simile ne innalzarono pure alla marina sul terrapieno stesso, ove gli Austriaci ponevano il bersaglio pel tiro a segno. Sparsero inoltre per la città molte coccarde tricolori, e biglietti o tessere con motti di sangue, e corone di fiori verso il luogo dove era stato il quartiere della Guardia civica», cioè nell’attuale via Beccari dove c’è il voltone di palazzo Maccolini.

Ragazzate? A quei tempi erano gesti che si pagavano molto cari. E infatti: «Il giorno 16 furono messi in arresto tre cittadini supposti complici di tal fatto, e il 17 ne furono catturati altri, fra i quali il dott. Genesio Morandi e Paolo Catalucci, e tradotti a S. Leo». Cioè in quello che era il “carcere di massima sicurezza” di tutto lo Stato Pontificio. In quelle celle della fortezza che possiamo ancora vedere, già allora dalla fama sinistra per i tanti che ci avevano lasciato la pelle. E solo per una bandiera.

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