“D’ordine di Papa Pio VI, oggi regnante, e mediante editto del nostro Legato N. Colonna, affisso in questo giorno 7 gennajo, vengono inibiti ogni sorta di sollazzi e divertimenti soliti nell’attuale stagione carnevalesca. E ciò in conseguenza delle turbolenze che allarmano le popolazioni, compreso lo Stato nostro, e dietro la rivoluzione accaduta in Francia”.
Nel XVIII secolo, vietare il Carnevale non era uno davvero uno scherzo da poco. Perché si trattava un periodo importantissimo dell’anno, con riti vissuti visceralmente a tutti i livelli sociali. E non ci si riduceva certo alle ultime follie del martedì grasso.
Come specifica l’editto, il 7 di gennaio, cioè appena dopo l’Epifania, si era già in “attuale stagione carnevalesca”. Le feste, le commedie, le più disparate esibizioni, i tornei e naturalmente le burle avevano luogo ovunque, conventi compresi. Dovevano esserci ragioni davvero serie per arrivare a un divieto del genere. Che fra l’altro, appena dieci giorno dopo, fu esteso a tutto l’anno: “che per tutto il corrente Anno 1793 siano proibite non solo le Commedie, pubblici Spettacoli, e Baccanali, ma ben’anche le Feste di Ballo, Corse di Cavalli, Caccie di Bue, e Steccati, ancorchè d’antico Istituto, e solite a farsi in qualunque circostanza, ed occasione”.
Costa stava dunque succedendo? Succedeva di tutto. E tutto in Francia.
La Bastiglia era stata presa il 14 luglio 1789. Lo stesso anno veniva promulgata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Nel 1791 veniva approvata la “Costituzione civile del clero”, che lo obbligava a giurare fedeltà allo Stato come gli altri pubblici funzionari. Alla condanna di questi atti da parte del papa Pio VI, la Francia rivoluzionaria aveva risposto occupando Avignone, che apparteneva ancora alla Santa Sede fin dal medio evo. La Chiesa francese era spaccata e i fedeli a Roma furono perseguitati violentemente, fino ai “Massacri della Glacière” proprio ad Avignone.
Poi il re Luigi XVI fugge, viene ripreso, esautorato, imprigionato. Il 21 settembre 1792 la Francia proclama la Repubblica.
L’editto pontificio che vieta le feste per tutto l’anno è del 14 gennaio. Passa appena una settimana e da Parigi arriva la più incredibile e sconvolgente delle notizie: la Francia ha tagliato la testa al suo re.
Papa Pio VI, il cesenate Giovanni Angelico Braschi, fu uno dei protagonisti di quegli anni che cambiarono la storia del’umanità.
Era salito al soglio di Pietro 15 febbraio 1775. Si ispirava a Giulio II, il trionfante papa guerriero del Rinascimento. E un nuovo Rinascimento sognava per Roma: sfarzo, ambiziosissimo programma edilizio (fu lui a far erigere gli obelischi che si trovano davanti al palazzo del Quirinale, a Trinità de’ Monti e in piazza Montecitorio), nepotismo sfacciato, illusione di poter ancora trattare da pari a pari, se non da un gradino superiore, con le grandi potenze. Senza avvedersi che il mondo aveva imboccato la via esattamente opposta.
Di lì a tre anni dai divieti pontifici, Napoleone Bonaparte avrebbe invaso lo Stato della Chiesa una prima volta. Bologna, la Romagna con Rimini e le Marche fino ad Ancona andarono a far parte della Repubblica Cispadana. Nel 1798 la seconda occupazione di Roma, l’arresto e la prigionia di papa Braschi, ormai ottuagenario. Pio VI morì l’anno dopo recluso a Valence. Il suo corpo fu lasciato a lungo insepolto. Quando infine fu deposto in una povera tomba, vi si scrisse: «Cittadino Gianangelo Braschi – in arte Papa». Dal municipio di Valence fu notificata al Direttorio che si era sepolto “l’ultimo papa della storia”.
Invece, a Pio VI succedette Pio VII, Barnaba Niccolò Maria Luigi Chiaramonti, di Cesena pure lui. Anche se ne Il Marchese del Grillo, interpretato dal bravissimo Paolo Stoppa, Mario Monicelli lo farà dialogare con Alberto Sordi in un per lui improbabile vernacolo romanesco.