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5 luglio 1530 – Basta abusi d’ufficio, nuove regole per il Capitano del Porto di Rimini

«Il porto di Rimini è una bella cosa, se si tenghi bene in ordine; ma va in rovina perché si riempie. Quella comunità vi spende assai, ma con tanto intervallo di tempo che non può far frutto. Bisognerebbe farvi in un tratto una spesa grossa, il che la comunità non può. Vi era Valerio di Tingolo e alcuni altri mercanti che offerivano fare lor la spesa avendo l’entrate a fitto per certo tempo; al che la comunità non acconsentì parte per invidia, parte perché facevano qualche domanda ingorda».

Francesco Guicciardini

A scrivere è Francesco Guicciardini, nel 1527 al servizio di Papa Clemente VII e incaricato di ispezionare le cose di Romagna. L’autore delle “Storie d’Italia”, che gli storici contrapporranno al Machiavelli quale fondatore del pensiero politico moderno, è colui che  nel 1524 ha dato delle nuove “Costituzioni” al porto di Rimini .

Fra esse, c’è tutto quanto riguarda il Capitano del Porto. Una magistratura che a Rimini è documentata almeno dal XV secolo, in origine nominata dalla città stessa e dotata di larghi e autonomi poteri. «Il quale ufficio – spiegava Luigi Toniniera proprio di un cittadino nobile, ascritto al consiglio della città, da cui di anno in anno veniva eletto a deputato». La nomina avveniva mediante l’estrazione a sorte tra i 130 consiglieri comunali. Poi i Veneziani, nel 1503, avevano insediato un ufficiale preposto ai medesimi compiti giudiziari e di polizia amministrativa con l’appellativo di “armirajo over capitanio del porto” a cui era rimesso anche il controllo sull’agibilità e sulla funzionalità dello scalo. Ma da quando Rimini è sotto il governo diretto della Chiesa dopo la rovina definitiva dei Malatesta, il Capitano è un funzionario nominato direttamente da Roma, come del resto il Governatore della città.


Nel “Sermone di Santo Stefano” di Vittore Carpaccio appare una veduta del porto di Ancona nel 1514, che restituisce l’atmosfera cosmopolita di uno scalo adriatico dell’epoca

Scrive Maria Lucia De Nicolò in “Rimini Marinara“: «Con il ritorno dei territori romagnoli sotto il governo di Roma (1509), le autorità centrali dello stato avevano assegnato l’incarico di capitano del porto a tal Domenico Sporco, originario dell’Epiro».  

Il Capitano deve sorvegliare sulle attività marittime, giudica cause civili e criminali della gente di mare ma anche della popolazione residente nei quartieri portuali (escluso il borgo di San Giuliano). Deve tenere il giornale amministrativo, da esibirsi al “maestro delle entrate” ad ogni sua eventuale richiesta. Tratta “ogni causa tra barcaroli tereri et forestieri, marinari, ruffiani, marioli et putane, et ogni altra persona forestera che havesseno differentie insieme che capitassero in dicto porto”. Non spetta però a lui, come in passato, riscuotere dazi e gabelle della comunità, per cui c’è l’apposito “vicario delle gabelle”. Potevano ricorrere al giudizio del Capitano anche “li hosti che abitano in el dicto porto”, ma “quando non si contentassero” era data l’opportunità di ricorrere ad altro “iudice competente”, «alla stregua di quanti, residenti in “dicta cità e contà di Arimino” si trovavano coinvolti in vertenze con “forestieri predicti, barcaroli, marinari, ruffiani, putane e marioli”, ovvero con gente del porto».

Nel 1530 l’epirota è di nuovo Capitano del Porto di Rimini. E il 5 luglio di quell’anno vengono pubblicate le “Moderationi sopra le porte, capitanio del porto et officio della guardia” che vanno a specificare le Costituzioni del Guicciardini. Vi era infatti stato un “confuso procedere” che riguardava la “exactione de soi emolumenti”, le “exorbitantie”, nonché gli “immoderati appettiti di essi officiali”: «una condotta amministrativa tale – commenta la De Nicolò – che potremmo definire, senza mezzi termini, abuso d’ufficio».

Vittore Carpaccio,: "Sermone di S. Stefano" . dettaglio dello sfondo

Vittore Carpaccio: “Sermone di S. Stefano”, dettaglio dello sfondo

Nelle nuove regole si legge:
«Se ordina et statuisse che ‘l dicto Capitanio del porto et ad chi tocharà dicto offitio debba havere dui ducati d’oro al mexe per suo salario de le intrade de la comunità; con questa obligatione e pexo che ‘l sia tenuto e obligato tenere continuamente due idonei gargioni sufficienti da approbarsse per el dicto consilio ecclesiastico ultra el suo piazaro». Dunque il Capitano riceve due ducati al mese, che devono servire di sostentamento a lui e a due guardie (gargioni: garzoni) e un messo-banditore (piazaro).

«Quali piazare e gargioni habbiano e dì e nocte assiduamente e del continuo stare pernoctare e custodire dicto porto da ogni pericolo e suspitione tanto de peste quanto de altro: et epso capitanio etiamdio sia tenuto personalmente dormire e stare la nocte al dicto offitio quando fusse recerchato e comandato dal signor gubernatore e da li deputati de la guerra o altri in nome della comunità per quello tanto tempo farà bisogno e non ultra». Il Capitano e i suoi devono pertanto fornire quella che oggi è chiamata la “reperibilità“; di più, lui in persona deve pernottare nel suo ufficio. Da notare che il primo pericolo su cui vegliare con la massima attenzione ed unico a essere messo per iscritto non sono i nemici, o la pirateria, o il contrabbando e nemmeno l’ordine pubblico, ma le epidemie e soprattutto quelle di peste.

«Et oltra dicto salario dicto capitanio debba havere tucti li debiti e soliti regalie e emolumenti de dicto offitio moderati però e limitati secondo l’ordine da farssi per li signori consoli e cancelliero de la comunità: et exercitare tuctele sue iurisditione hovero pertinentie secondo li ordini vechii e frequentate usanze de la ciptà e le riformanze de quella».

C’è un qualcosa di familiare in questo procedere delle norme. Molto italianamente, esordiscono con un rigore draconiano, ma via via annacquato di articolo in articolo. Le prime significative eccezioni e precisazioni riguardano una cosa mica da nulla: proprio lo stipendio del Capitano: due ducati, sì, che però possono essere integrati secondo le “vecchie” usanze cittadine: formula vaga e quanto mai opportuna alle bisogne del Capitano.

Nel 1532 a Rimini fu concesso di poter nuovamente nominare da sé questo importante magistrato scegliendolo fra i propri nobili: secondo le antiche usanze.

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