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5 gennaio – “E’ mis-cer ad Michelaz, magnè bev e nu fe un caz”

Il 5 gennaio la Chiesa festeggia S. Amelia, vergine martire di Gerona in Catalogna. Pur ignorando praticamente tutto di lei, è stata eletta a patrona dai minatori assieme alla molto più nota S. Barbara, la cui festa cade il 4 dicembre.

I ricordini benedetti di Senta Berbara e Senta Melia erano dunque sempre addosso a quelli che lavoravano int la Busa, o Buga, cioè nelle miniere di Perticara. Un lavoro durissimo e ingrato, dove alla fatica di dover scavare sottoterra si aggiungeva il pericolo e l’insalubrità di aver a che fare con e’ seifni, lo zolfo.

E’DÈ DE GIUDIZI UNIVERSÊL
Quânt ch’l’avnirà
E’ dè de’ Giudizi,
Signor,
-e che al trombi
al svigiarà i murtchi
pur sbrazent,
chi muradur, chi cuntaden
ch’j’ à fadighé
tota la vita,
ad ch’ai da rendar cont incóra ?
No sunê la tromba par ló
Almânch lësi durmì, Signór!

(IL GIORNO DEL GIUDIZIO UNIVERSALE –Quando
giungerà \ il giorno del Giudizio \ Signore, \ – e che le trombe \
sveglieranno i morti – \ quei poveri braccianti, \ quei muratori,
quei contadini \ che hanno faticato \ tutta la vita, \ di cosa
devono rendere conto ancora? \ Non suonare la tromba per
loro … \ Almeno lasciali dormire, Signore!)

Sono i versi dedicati ai minatori romagnoli da Tolmino Baldassari da Castiglione di Cervia (1922-2010), cui lui, sindacalista Cgil, si sentiva particolarmente legato.

Faticare tutta la vita: l’ineluttabile “Clu ch’ vo magnè, l’ha da lavurè”, chi vuol mangiare deve lavorare.  O più crudemente, “chi c’han vu lavuré, i smittrà ânch ‘d caghé”.

Però tutti sognano l’universale “E’ mis-cir ad Michelaz, magnè bev e nu fe un caz”, che il dizionario Hoepli dottamente volge in “l’arte di Michelasso è mangiare, bere e andare a spasso”, non senza proporre improbabili derivazioni da “Miquelet, soprannome anticamente usato in Francia e in Spagna per i fedeli che si recavano in pellegrinaggio al santuario di San Michele” e quindi per il popolo vagabondi tout court; o peggio ancora “dal nome di un certo Michele Panichi, un ricco fiorentino che si ritirò dagli affari in età ancora giovane e che visse per il resto dei suoi anni senza far nulla”.

Nella realtà l’ideale di cotal Michelaccio era ed è talmente diffuso da rendere difficile dargli una patria. E fa capolino, addirittura, nelle pagine del Manzoni quando si parla di Don Rodrigo: “potrebbe far l’arte di Michelaccio; no signore: vuol fare il mestiere di molestar le femmine”.

Ma bisogna rassegnarsi e meno male che “la piaza e la mareina, un frânc igna matena”, poiché sulla piazza e alla marina di Ravenna (e non solo) c’era sempre qualcuno disposto a lavorare per una lira.

A meno che abbia “na voja ad lavuré che e’ casca d’indrì”:  una voglia di lavorare che casca all’indietro. In altre parole “l’ha na vejpa (vojpa, volpa) c’amaza”, ha una “volpe”, un’indolenza che ammazza.

.Quondamatteo: “Alla domanda che mis-cer fal? ho sentito la bella risposta: l’aiuta ma quei ch’in fa gnint”.

Ma i più continuano a faticare eccome, per poi essere magari mal sopportati, anche se (o proprio perché) fanno mestieri umili e faticosi: a Rimini “Muradur e galafà i fa avnì la fevra ma chi ch’un l’ha”, muratori e calafati fanno venire la febbre a chi non l’ha: perché, come conferma Gianni Quondamatteo i fa casèin e sporcano e mettono tutto sottosopra. A meno che sia ora de La caghèda de muradur: dicesi di lungo lasso di tempo. Il muratore, accusando un impellente bisogno – vero o falso che fosse – ne approfittava per restare assente dal lavoro qualche tempo; un modo per difendersi dallo sfruttamento del padrone, per tirare su il fiato”.

E a Ravenna: Sota a i muradur a lavuré, gnânc i chen i ni vo sté”, neppure i cani vogliono stare a lavorare sotto i muratori. Non va meglio per i marinai: “I mariner, j è dop de dulfèin e dop de cuchel”, vengono dopo il delfino e perfino dello stolido e inutile gabbiano.

E tutto questo per cosa? “A forza ‘d sudor e d’ braz, un s met insèn un caz”, non è davvero il lavoro manuale che rende ricchi.

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