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28 gennaio 1923 – Il Comune di Rimini è sciolto dai fascisti

Il 28 gennaio 1923 l’amministrazione comunale di Rimini viene ufficialmente sciolta. Il giornale “La penna fascista” scrive: «Il Fascio e solo il Fascio ha la responsabilità della cosa pubblica». 

La città era retta da commissari prefettizi fin dal 6 luglio 1922, quando la giunta socialista guidata dal medico Arturo Clari si era dimessa dopo 20 tormentatissimi mesi di governo. Il sindaco aveva spiegato il gesto con la volontà di evitare nuove violenze.

E Benito Mussolini sul Popolo d’Italia aveva commentato: «Rimini nelle nostre mani significa il braccio della tenaglia che ci mancava per serrare l’Emilia e la Romagna e allo stesso tempo Rimini fascista è il ponte di passaggio per la penetrazione nella marca contigua». 

Benito Mussolini attorniato dai "quadrumviri" durante la marcia su Roma del 28 ottobre 1922

Benito Mussolini attorniato dai “quadrumviri” durante la marcia su Roma del 28 ottobre 1922

A sua volta, Palmiro Togliatti annota su Ordine Nuovo: «L’attacco a Rimini deve essere spiegato come tentativo di aggiramento delle più forti posizioni romagnole». (per queste citazioni, Donatella Coccoli “Dal 900 al 2000“, che a sua volta richiama G. Gattei).

Squadra fascista di Città di Castello; a Rimini giunsero manipoli anche dalla Massa Trabaria

Squadra fascista di Città di Castello; a Rimini giunsero manipoli anche dalla Massa Trabaria

Rimini era infatti considerata «l’anello debole della catena rossa”, come scrissero Silvano Cardellini e Liliano Faenza in “Rimini, una storia lunga” per “Federico Fellini, la mia Rimini” – Guaraldi).

Prosegue quel testo: «I fascisti, con una “spedizione punitiva”,  buttarono per aria alcuni circoli operai, distribuirono qui una manganellata o un ceffone, là un bicchiere di olio di ricino e costruirono una loro testa di ponte verso la Marca contigua. Infine costrinsero allo scioglimento l’amministrazione socialista. Poi, in omaggio alla democrazia, fecero le elezioni (1923). Presentarono due liste: una fascista di “maggioranza”, capeggiata da Innocenzo Cappa, e una fascista di “minoranza”, (i camerati di strada), capeggiata dal chirurgo Lodovico Vincini, Pulirono il melo. E tra canti di gioia, riti guerrieri, rogo di cuori, adunate oceaniche, agonali di cultura e saggi sportivi, tennero la piazza, come si sa, per vent’anni (ma forse, a voler essere più precisi, per diciassette), non senza essere riusciti, ad accendere qui come altrove, per un certo periodo, in settori popolari che lo ignoravano e lo spregiavano, un certo sentimento nazionale o nazionalistico – che però non resse alla prova, – gridando di nazione proletaria e di popoli poveri e galvanizzando le masse con un plebeo che si proclamava rurale, sapeva recitare molto bene la sua parte e suscitare il culto della persona».

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