Il 27 maggio 359, partono da Costantinopoli i messi dell’imperatore Costanzo II con i dispacci che convocano il Concilio di Rimini. O meglio un sinodo, poiché non si convocava l’Ecumene, ovvero tutto l’impero, ma solo al sua parte occidentale.
Secondo le fonti vaticane, le uniche disponibili, saranno circa quattrocento i vescovi dell’Occidente che risponderanno all’appello e si recheranno ad Ariminum. Un numero che appare esorbitante, quando si tenevano sinodi con meno di 100 vescovi. Concilio o sinodo che si sarebbe concluso il 31 dicembre, in modo che l’imperatore potesse aprire l’anno nuovo con la ritrovata pace religiosa.
Ne aveva quanto mai bisogno. Costanzo II si era ritrovato unico imperatore romano nel 350, quando era stato assassinato il fratello Costante, che aveva avuto l’Occidente nella divisione dell’eredità di Costantino il Grande. Ma aveva sempte dovuto combattere duramente contro usurpatori che si erano proclamati successore di Costante, dal generale franco Magnenzio a Costanzo Gallo, figlio di un fratellastro di Costantino. Non bastasse, c’erano le pressioni dei Sasanidi dalla Persia, gli Alamanni da arginare, l’ennesima rivolta della Gallia al seguito del nuovo usurpatore Silvano, l’ascesa apparentemente inarrestabile del pagano Giuliano, che poi gli sarebbe succeduto come imperatore, l’ultimo nella storia ancora fedele alla religione olimpica.
Con tutti questi grattacapi, è facile immaginare con quale animo Costanzo potesse vedere le rigidezze teologiche dei vescovi di Roma nei confronti degli Ariani: semplici (in senso tecnico: a Roma il livello culturale delle speculazioni cristologiche era talmente basso da non aver alcuna probabilità di prevalere in un confronto con un avversario orientale) quanto fastidosi pretesti per accampare autonomia di potere senza alcun fondamento e senza alcuna legittimità. Tali e quali degli usurpatori che spuntavano uno dietro l’altro, segnale di una reale insofferenza dell’occidente rispetto un solo imperatore orientale. Ma a Nicea, come negli altri concili ecumenici (Costantinopoli I, Efeso I, Calcedonia) il vescovo di Roma non aveva avuto alcun ruolo di rilievo; ridicolo che ora i suoi successori si ergessero quale depositari delle sue determinazioni. Papa Liberio, in carica quando probabilmente il vescovo di Rimini Gaudenzo fu ucciso, fu incarcerato, esiliato e costretto all’abiura da Costanzo dopo aver temuto seriamente per la propra vita.
Non può dunque stupire che Gaudenzo finisse “linciato” non dagli Ariani ma dall’autorità civile che dipendeva dall’imperatore. La bastonatura a morte, secondo molti studiosi, era la pena arcaica che il diritto romano infliggeva ai colpevoli di perduellio, ovvero di delitti contro lo stato o in altre parole la “lesa maestà”, fra cui l’attentato all’ordine costituito. Come narra la tradizione, i rapporti fra Gaudenzo da una parte, il “console Marciano” e il “prefetto Tauro” dall’altra, erano stati sempre molto tesi.
I vescovi di Roma disconobbero in seguito le risoluzioni “estorte” a Rimini. Forse una coincidenza, fra esse c’erano anche limitazioni alle esenzioni fiscali ecclesiatiche, che Costanzo aveva riservato alla Chiesa come istituzione ma privandone le persone fisiche sue terrene rappresentanti.
“Il concilio del 359, l’avvenimento grazie al quale la chiesa di Rimini si presenta alla ribalta della storia, rappresentò un momento importante, ancorché non favorevole all’ortodossia, nel lungo e complesso itinerario della controversia ariana nel corso del IV secolo. Nessuno dei tanti concili, ecumenici e no, celebrati durante quel secolo, raccolse un numero tanto grande di partecipanti, circa 400 soltanto tra gli occidentali, nessuno fu preparato con tanta cura dalle varie parti coinvolte nel contrasto, nessuno ebbe svolgimento tanto drammatico”. (L’Osservatore Romano, 6 dicembre 2009).
All’epoca, il principale contrasto che divideva i cristiani riguardava la “natura” di Cristo, ed opponeva i trinitari agli ariani. Ario, un presbitero di Alessandria d’Egitto, sosteneva che ci fu un tempo in cui Gesù non era esistito: Gesù non era, dunque, “della stessa sostanza del Padre“ (homousios), come riconosciuto dal primo concilio di Nicea (325), ma solo “di sostanza simile a quella del Padre” (homoiusios).
Le dottrine di Ario, condannate come eretiche dalla maggior parte dei vescovi occidentali a partire da quello di Roma, ebbero largo seguito però in Oriente e divennero maggioritarie nella stessa Costantinopoli. E da lì si diffusero fra i popoli germanici appena convertiti (e arruolati come ausiliari nell’esercito), come i Goti. Oltre ad essere molto accesa, la diatriba fu anche molto popolare, coinvolgendo fino i fedeli più umili, ansiosi di sapere quale fosse l’interpretazione corretta che davvero poteva dare la salvezza.
Ma le stesse preoccupazioni assillavano coloro che all’opposto stavano al vertice, sommate alle cure del governo. Non pochi nella famiglia imperiale propendevano per l’arianesimo, o almeno per un compromesso con esso, se non altro perché preminente nelle regioni più ricche e importanti dell’impero, quelle orientali. E l’impero di Costanzo aveva bisogno innanzi tutto di unità contro nemici interni (ben 5 usurpatori) ed esterni (Persiani, Germani, Sarmati e tanti altri) sempre più aggressivi.
L’ultimo tentativo di ristabilire questa unità della cristianità, ma velata di arianesimo, fu fatto appunto da Costanzo II, figlio di Costantino “il grande”, partendo nel 359 proprio a Rimini: con un sinodo (piuttosto che impropriamente un “concilio”) dove il partito ariano elaborò un credo al quale tutti avrebbero dovuto conformarsi una volta divenuto il volere di Costanzo. Cioè dell’imperatore, che all’epoca era incontestabilmente l’unico capo della Chiesa. Il prefetto del pretorio Tauro, incaricato di presiedere il sinodo, aveva pertanto l’ordine di trattenere i vescovi con le buone e con le cattive finché non avessero sottoscritto il credo. E il sinodo durò fino all’inverno, fin quando tutti e “400” firmarono il documento imperiale; all’apertura dei lavori i filo-ariani erano solo 80.
Contemporaneamente, nel settembre dello stesso anno, fu convocato il sinodo di Seleucia con i vescovi orientali; anche qui Costanzo affidò la presidenza del sinodo ad un uomo di sua fiducia, Leonas, e anche qui, tra i 150 vescovi prevalsero gli ariani e il documento voluto da Costanzo fu firmato. Il 360 vide un altro concilio a Costantinopoli, in cui i risultati dei due sinodi precedenti furono confermati. Un ulteriore concilio ariano fu tenuto ad Antiochia, dove si trovava Costanzo a svernare, nel 361, in cui i 74 vescovi ariani regolarano alcune nomine a proprio favore; fu l’ultimo intervento di Costanzo nella politica religiosa dell’impero; quello stesso anno morì a 44 anni, dopo aver governato per 24.
Venne poi la parentesi di Giuliano detto dai cristiani “l’Apostata”. Non perchè avesse rinnegato una fede cristiana che in vita sua non aveva mai abbracciato (e nemmeno perseguitato): l’apostasia riguardava l’impero tutto, che con le persone di Costantino e del figlio Costanzo era stato cristiano e ora con quella di Giuliano tornava a non esserlo più.
L’arianesimo fu definitivamente condannato nel 380 dall’imperatore Teodosio, che proclamò il credo di Nicea religione di stato e diede il via alla persecuzione dei “pagani” che ancora seguivano la religione olimpica.
Al sinodo di Rimini si collega come accennato vicenda di San Gaudenzo, vescovo e martire, patrono della città. Nativo di Efeso, in Asia minore, era stato nominato presule di Arimimun da papa Giulio I proprio perché strenuo difensore dell’ortodossia nicena e in quanto tale durante il Concilio per evitare di firmare il dettato imperiale dovette scappare, rifugiarsi con pochi seguaci in quella che sarà chiamata Cattolica; o almeno così narra una leggenda tarda e palesemente infondata.
E’ invece storia che, rientrato in città, il 14 ottobre 360 Gaudenzo fu percosso a morte “dai seguaci di Ario” – ma la tradizione parla esplicitamente di “soldati del Console Marciano” – per non essersi voluto piegare alle loro pretese. Il martirio sarebbe avvenuto poco fuori Porta Romana (l’Arco d’Augusto); Gaudenzo fu sepolto in un cimitero già esistente lungo la via Flaminia, presso la laguna del Lacus Maior (Lagomaggio).
Su quella tomba, sorse prima un piccolo martyrium, poi una una cappella, e quindi un’abbazia, una delle due principali di Rimini. Durò fino ai primi dell’Ottocento. Sconsacrata e venduta alla Contessa Teresa Sartoni detta “la Sartona”, fu demolita per costruire il “casino di delizie” della nobildonna; alla sua morte passò all’orfanotrofio “Pio Felice”. Abbandonato e in rovina il tutto, nel 1972 sul luogo comparve il Palaflaminio, come si vede ancora oggi. Intorno continuano ad affiorare i resti della necropoli romana: un cimitero dei poveri dove pagani e cristiani erano sepolti gli uni accanto agli altri.
(nell’immagine di apertura, ritratto di Costanzo II conservato ai Musei Capitolini di Roma)