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26 aprile 1290 – Rimini in rivolta contro Stefano Colonna Conte di Romagna

Il 26 aprile 1290 a Rimini succede il finimondo. Lo riporta Luigi Tonini (“Rimini nel XIII secolo”, in “Storia storia civile e sacra riminese del dottor Luigi Tonini”, 1856) nel capitolo “Come fu tumulto in Rimini contro Stefano Colonna; e Martino Cataldi fu impiccato”.

Stefano Colonna apparteneva all’antichissima famiglia romana che pretendeva di provenire addirittura dalla Gens Julia (quella di Giulio Cesare) e dalla gens Anicia (cui appartennero San Benedetto, papa Gregorio Magno e il filosofo Severino Boezio, oltre all’imperatore d’Occidente Anicio Olibrio). Di certo era loro avo Teofilatto Conte di Tuscolo (presso l’odierna Frascati) vissuto fra IX e X secolo. Schiatta fieramente ghibellina, come mostra la nera aquila imperiale inalberata già dai conti di Tuscolo. Stefano era signore di Gennazzano, nonchè fratello minore di Giacomo Colonna detto Sciarra”, colui che nel 1303 avrebbe schiaffeggiato papa Bonifacio VIII ad Anagni.

Papa Niccolò IV

Nel 1290 Stefano doveva avere all’incirca 25 anni. Papa Niccolò IV, eletto nel 1288, primo pontefice francescano e tutto dedito a organizzare l’ennesima crociata, al tal fine intendeva comporre le contese che dilaniavano le città italiane e scelse il giovane Colonna per portare la pace nella turbolenta Romagna, fonte perenne di inestricabili grattacapi, nemmeno riducibili alla tradizionale contesa fra Guelfi e Ghibellini. Stefano nel 1289 fu dunque nominato Conte di Romagna e si mise all’opera. Dopo aver sistemato in qualche modo le cose a Faenza, Forlì e Cesena, regolate le pendenze con Ravenna, nel 1290 riuscì a trovare un accomodamento che andasse bene anche alle fazioni di Rimini.

Il castello dei Colonna a Gennazzano

Fra fra le pacificazioni realizzate da Stefano Colonna, Wikipedia cita anche quella “fra le famiglie dei Malatesta e dei Da Polenta, in contrasto a seguito dell’assassinio di Francesca da Polenta da parte del marito Gianciotto Malatesta, avvenuto nel 1285. Fu proprio grazie all’intervento di Stefano Colonna che le due famiglie infine si riappacificarono nel 1290”. Notizia ripresa pedissequamente da “Gradara nella storia, nell’arte e nel turismo” di Delio Bischi, ma che non trova alcun riscontro nei documenti dell’epoca. Dove invece si legge come Malatesta e da Polenta fossero alleati di ferro sia prima che dopo la tragedia degli sfortunati amanti. E del resto, ciascuna famiglia aveva aveva già pagato il suo prezzo di sangue: se Guido da Polenta aveva perduto la figlia Francesca, Malatesta da Verucchio era rimasto senza il figlio Paolo. La frattura si verificherà non fra malatestiani e polentani, ma proprio nella discendenza di Paolo, con suo figlio Uberto conte di Ghiaggiolo passato nel 1297 nelle fila dei Ghibellini dando il via a una faida che sarebbe durata quasi trent’anni.

Ruderi della rocca di Ghiaggiolo

A Rimini si trattava di far andare d’accordo i guelfi Malatesta e i ghibellini Parcitade. In quel momento i primi erano banditi dalla città, ma controllavano un bel numero di castelli del contado. La guerriglia era perenne e feroce, come frequenti erano i ribaltamenti di alleanze e le rivalità interne anche alle stesse famiglie, rendendo il quadro politco a dir poco complicato. Il Colonna riuscì comunque a far firmare a tutti quanti un trattato che prevedeva, a grandi linee, il rientro dei Malatesta in Rimini, il perdòno reciproco delle offese e una sorta di amnistia, pur al prezzo di multe e pagamenti di tasse arretrate.

Tutto bene dunque? Niente affatto. Il seme della discordia era già nella stessa composizione della missione affidata al Colonna. Evidentemente su indicazione del papa conciliatore, quella del Colonna era infatti una compagine “bipartisan” o di “unità nazionale”, come diremmo oggi. Tanto che il Conte ghibellino aveva nominato (o dovuto nominare) podestà dell’allora ghibellina Rimini non solo un Guelfo, ma niente meno che uno dei suoi arcinemici Orsini (coi quali era tuttavia imparentato per parte di madre). Secondo alcuni si trattava di “Orso di Napoleone dei figli d’Orso Romano”, secondo altri fra cui il Tonini di “Orso di Matteo dei figli d’Orso, e volgarmente s’appellava Ursello da Campo di fiore da Roma“; in ogni caso, “soggetto, che per essere degli Orsini mal poteva simpatizzare col Colonnese”, stando sempre al Tonini.

Stemma degli Orsini

Ma veniamo al fattaccio. Mentre il Conte di Romagna Stefano Colonna risiede ancora a Rimini, avvenne che “la sera del mercoldì 26 aprile 1290 i famigli di Todino vice Mariscalco del Conte (…) forse provocati, vennero alle mani con quelli del Podestà”: cioè scoppia una zuffa fra gli armati del Colonna e quelli dell’Orsini, in quel momento al servizio del Comune di Rimini.

E’ la scintilla che fa scoppiare l’incendio, tanto doveva essere precaria la pace appena raggiunta. Sempre il Tonini: “Ai famigli del Podestà si unirono que’ riottosi, che sprezzavano il Conte, e che doveano veder male la recente pacificazione del Comune coi Malatesti; e un tal Martin Cataldi, uomo di molto seguito ne’ popolani, se ne fé capo. Forse le genti del Podestà dovettero trovarsi inferiori a quelle del Conte; per la qual cosa presero a chiamar, Popolo! Popolo! e a gridare ad Ursello perchè facesse suonare la campana del popolo, la quale era sulla Tórre del Palazzo ove abitava (il palazzo del Podestà e la torre tutt’ora esistente, pur rimaneggiata, accanto all’Arengo). E di presente la campana suonata a stormo trasse i popolani da ogni contrada, dai borghi, e fin dalle ville, accorrendo in massa a piedi e a cavallo dietro a lor gonfaloni con balestre e ogni sorta di armi: e cominciò un menar di mani orribile. Preliavasi in molti punti; e i sassi frombavano dalle torri e dalle case; e colle genti del Conte fu fierissimo combattimento, non senza morte e ferite di molti”. 

I palazzi comunali e la torre dell’Arengo

Ma a quanto pare gli stessi capi delle fazioni non sono d’accordo con la sommossa e anzi si dànno da fare per spegnerla: ecco quindi ghibellini Partcitade e guelfi Malatesta accorrere entrambi a difesa del Conte cui avevano giurato la pace: “Se Montagna de’ Parcitadi non si fosse posto in mezzo, il Palazzo del Conte quella notte sarebbe venuto alle mani de’ rivoltosi; ma costui seppe sì dire e sì fare, che rallentarono e si ritirarono. Gli amici di Malatesta corsero anch’ essi in difesa del Conte, e si raccolsero per le vie della Pescaria, de’ Stenarii nel trivio di quei da Secchiano o de’ mercatanti (non è possibile identificate queste vie, ma ci dobbiamo trovare sempre nelle immediate vicinanze della piazza; la pescheria era già nel luogo prospicente la piazza della Fontana, dove sarebbe stata monumentalizzata nel ‘700). E poiché fu rotta una porticella sulle mura della città presso la casa di Atto Ravignano (notabile già citato in atti di metà del ‘200, ma non sappiamo dove avesse casa; probilmente la zona è fra Porta S.Andrea e Porta del Gattolo, dove i Malatesta avevano le loro case), allora di Malatestino (Malatesta “dell’occhio”, il “Mastin nuovo” dantesco), potè unirsi loro anche lo stesso Malatesta (il “Mastin Vecchio”, patriarca della famiglia e padre del precedente) che assieme co’ suoi trasse al rumore, del quale non dovè mancargli prontissimo avviso”.

La porta del Gattolo ora inglobata in Castel Sismondo

“Allora i sommossi furono superati; perocché dalle deposizioni che ci restano sappiamo che la popolazione per più di due terzi stette in favore del Conte; il quale fu mantenuto in possesso del Palazzo e della piazza del Comune, di tutto il tratto che comprendeva la Cattedrale (di Santa Colomba), il Vescovado, l’abitazione de’ Canonici, e il palazzo di Malatestino, non che della contrada di S. Colomba e in parte di quelle di S. Silvestro e di S. Martino. Anzi pare che nemmeno gli stessi capi sediziosi avessero intenzioni prave contro la persona di lui conciossiachè nel documento nostro n. CLXXI vien deposto che Ursello e il Cataldi anche nella mischia stettero ai suoi comandi; e che il Conte, convocato il Parlamento, perdonò e rimise allora ogni offesa”.

La piazza della Fontana e i luighi circostanti nelle loro trasformazioni (da “Toponomastica riminese” di Oreste Delucca – 2019)

Se non che il Conte perdona, ma fino a un certo punto. Segno che non si fidava più di tanto nemmeno del “leale” sostegno ricevuto dai notabili riminesi e da tanta parte della popolazione: “Ma poiché il tumulto fu compresso, e i più si furono dati alla fuga, molti caddero nelle mani del Conte; fra i quali Ursello e Martino Cataldi. Quest’ultimo (…) venne sottoposto ai tormenti per la confession del misfatto, e per la manifestazione de’ complici. E, sia che realmente così fosse; sia che l’acerbità della prova così gli facesse dire; sia in fine sperasse sottrarsi meglio al castigo col far complici de’ potenti: egli depose d’aver ordito il tradimento in una al Podestà e altri molti, con animo di occupar la Città, uccidendo il Conte e sua corte e famiglia. Per la qual confessione colui fu condannato e sospeso per la gola. Gli altri furono confinati, chi a Cremona, chi ad Ànagni, chi ad Aquila nell’Abbruzzo”.

Impiccati in un dettaglio del “San Giorgio e la principessa” di Pisanello, 1433–1438

E ancora: “Nè qui si fermò l’indignato Conte; chè a ’23 giugno pronunziò sentenza contro l’intero Comune; privando la Città di ogni dignità, ed onore, cancellando i privilegi, e togliendole Contado e Podesterìa a forma di una Costituzione del Cardinal Bernardo Vescovo Portuense emanata quando Legato fu di Romagna. Indi pose alla reggenza, in qualità di Rettore o Podestà, Andrea dalla Montagna uom nobile e prudente. Così il Cantinelli. Ma il documento nostro n. CLXXI dice più chiaramente che due Podestà pose, i quali furono Pietro Palombaria e Andrea dalla Montagna, Nè furono risparmiate le pene ecclesiastiche; conciossiachè il documento n. CLXX. ci fa sicuri, che la città fu anche sottoposta ad Interdetto”.

Protesta il Tonini a cinque secoli e mezzo di distanza: “Inique sentenze! quando consta che la maggioranza del popolo non solo fu all’ubbidienza del Conte, ma operò virilmente alla sua difesa; e quando il fatto fu mosso non dai cittadini, ma dalle genti stesse di lui in rissa con altre del pari estranee alla Terra. Che colpa era di questa se gli Orsini abborrivano i Colonnesi?”.

Che colpe avessero i Riminesi non lo sappiamo e non lo sapremo mai. Sappiamo invece che di lì a poco a Ravenna il Conte finì addirittura in carcere per mano di Ostasio e Ramberto figli di Guido da Polenta, che evidentemente avevano ben poco gradito i metodi di “pacificazione” del Colonna. Nel giro di un anno il Conte di Romagna finì quindi praticamente esautorato e tutti i signori romagnoli, concordi nel cacciarlo, poterono riprendere a farsi beatamente la guerra fra loro.

Stefano Colonna fu largamente risarcito dei suoi patimenti romagnoli appena potè rientrare a Roma, dove fu nominato Senatore nel 1292. Ma le sue avventure erano appena iniziate. Morto nello stesso anno Niccolò IV e dopo la parentesi Celestino V, i Colonna furono in guerra senza quartiere contro il nuovo papa Bonifacio VIII. Stefano finì in esilio con tutti i beni confiscati e solo nel 1303, dopo il celeberrimo “schiaffo di Anagni” e la morte di Bonifacio, potè rientrare nei suoi possedimenti.

Bonifacio VIII arrestato dai Colonna e dai Francesi

Si schierò poi con l’imperatore Arrigo VII e tornò a scontrarsi violentemente con Orsini e Cateani, la famiglia di Bonifacio VIII. Ma quando nel 1327 a scendere in Italia fu l’imperatore Ludovico il Bavaro e Stefano veniva ormai a buon diritto chiamto “il Vecchio”, passò dalla parte dei Guelfi fino a guerreggiare contro il suo stesso fratello maggiore Sciarra Colonna. Ormai ottuagenario, fece poi in tempo a vedere Roma in mano a Cola di Rienzo. Vi si oppose con tutte le sue forze, ma il 20 novembre 1347 si ebbe la battaglia decisiva tra i baroni romani e l’esercito di Cola a Porta San Lorenzo: e vinsero le milizie guidate da Cola.

Cola di Rienzo, “l’ultimo Tribuno di Roma”

Nel corso della battaglia persero la vita il figlio del Vecchio, Stefano Colonna “il Giovane”, nonché Giovanni Colonna, figlio del “Giovane”. Quando la notizia giunse a Palestrina, dove si trovava “il Vecchio”, dopo essere stato informato di aver perso un figlio, un nipote ed altri congiunti nel fiore dell’età, questi rispose: “Sia fatta la volontà di Dio: però è certo miglior cosa morire, che sopportare il giogo di un villano”. E così fu; Stefano Colonna morì fra il 1348 e il 1349. Quanto ai Colonna, la loro presenza in Romagna dura fino a oggi: la rocca di Santarcangelo appartiene infatti a Donna Marina Colonna dei Principi di Paliano, ramo della famiglia detto “di Gennazzano”.

(nell’immagine in apertura: lo stemma della famiglia Colonna)

La rocca di Santarcangelo

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