Cerca
Home > Cultura e Spettacoli > Il Principato-Contea delle due Carpegne, la San Marino mancata

Il Principato-Contea delle due Carpegne, la San Marino mancata

A osservare oggi le rovine del palazzo di Scavolino, ammesso che si riesca a individuarle, è difficile immaginare che questo piccolo centro della Valmarecchia, neppure Comune autonomo ma frazione di Pennabilli con meno di 200 abitanti, sia stato a lungo capitale di stato sovrano. Uno stato grande, o meglio piccolo, all’incirca come la Repubblica di San Marino: 60,49 chilometri quadrati per il Principato di Scavolino e la Contea di Carpegna appartenenti alla medesima famiglia signorile, 61,77 quelli dell’antica Terra della Libertà.

La piazza di Scavolino vista dal Palazzo

Una delle porte girevoli della storia ha voluto che due secoli fa il Principato-Contea “delle due Carpegne” scomparisse. Mentre la Repubblica sammarinese doveva arrivare fino a noi, come del resto il Principato di Monaco (202 ettari) o quello di Liechtenstein (160 Kmq). Se gli eventi si fossero diversamente combinati, Scavolino e Carpegna oggi avrebbero come loro un seggio all’Onu, passaporto, targa auto e francobolli e così via. Perchè, come ricorda non senza rammarico il Comune di Carpegna nel suo sito istituzionale citando Francesco Vittorio Lombardi, “Carpegna si trovava nelle stesse condizioni di San Marino, vale a dire territorio libero all’interno dello stato pontificio: e come San Marino, sarebbe tutt’oggi uno stato libero se …”.

Verrebbe da chiedersi come mai queste latititudini siano state così propizie al formarsi di microstati. Non distante, appena oltre il crinale dell’Appennino, la Repubblica di Cospaia (frazione di San Giustino nell’Alta Valtiberina umbra fra Sansepolcro e Città di Castello) rivendica tutt’ora la sua sovranità; frutto di un errore di Papa Eugenio IV nel vendere queste terre ai Fiorentini, durò dal 1440 al 1826. Il Ducato di Urbino terminò nel 1631, la Contea di Sogliano nel 1640. Indomita indole delle popolazioni? Fossili di pendenze fra Papato e Impero fin da quando la Romagna era Esarcato? Fatto sta che da queste parti si incontrano ancora oggi due Stati, quattro Regioni, cinque Province e sei Diocesi. Dai confini bizzarri e irrazionali, come l’enclave della Provincia di Arezzo all’interno della Romagna (Ca’ Raffaello e S.Sofia), l’ancor più minuscola isola italiana di Valle S.Anastasio (Comune di Sassofeltrio) all’interno di San Marino, l’anomala posizione della toscana Sestino incuneata nelle Marche.

L’enclave toscana di S.Sofia-Ca’ Raffaello e poco sotto sulla destra il saliente di Sestino

Non sarà dunque un caso se qui si sono consumati gli unici passaggi di Comuni da una Regione all’altra nella storia della Repubblica Italiana con tanto di referendum secessionista: i sette della Valmarecchia – San Leo, Novafeltria, Maiolo, Talamello, Pennabilli, S. Agata Feltria, Castleldelci – dalle Marche in Emilia-Romagna nel 2009, seguiti da Montecopiolo e Sassofeltrio nel 2021. E non pare finita, dato che Valle S. Anastasio da sempre preferirebbe San Marino e ora qualcuno opterebbe almeno per tornare nelle Marche aggregandosi a Monte Grimano. A oggi Scavolino in quanto frazione di Pennabilli è in Emilia-Romagna, provincia di Rimini; il Comune di Carpegna nelle Marche, provincia di Pesaro-Urbino. Separati anche gli altri antichi domini: Miratoio e Bascio frazioni di Pennabilli, Gattara di Casteldelci.

Stemma dei Principi Carpegna Falconieri

L’indipendenza termina il 21 maggio 1819, quando il Principe-Conte Gaspare di Carpegna Gabrielli, cui la Santa Sede minaccia di confiscare i beni a Roma, è costretto a rinunciare ai suoi diritti. E siccome la famiglia risiede nell’Urbe ormai da generazioni e il patrimonio che vi possiede vale ben più di quello avìto, non c’è scelta. Eppure si trattava di diritti ben solidi, se la Santa Sede deve comunque riconoscere al sovrano spodestato 56 mila scudi d’oro più una rendita di duemila scudi all’anno: attenendoci al solo valore dell’oro, diciamo 360 mila dei nostri euro per la rendita e 10 milioni per il risarcimento in contanti?

E solidi quei diritti lo erano davvero. Anche se i Carpegna li facevano risalire all’imperatore Ottone I esibendo un diploma dell’anno 961: un falso. Tuttavia nel XII secolo feudi che erano stati dei Conti di Bertinoro (S. Agata, S. Donato, Maiano, Piega, Antico, Scavolino, ecc,) risultano riconosciuti con titoli di Conti da Federico Barbarossa ai Carpegna o ai Montefeltro: che secondo l’opinione comune appartenevano alla medesima schiatta.

Da sinistra: gli stemmi di Carpegna, Montefeltro, Malatesta, Della Faggiola

Come hanno ricostruito meglio degli altri Francesco Vittorio Lombardi (“La Contea di Carpegna” 1977) e uno degli ultimi discendenti della famiglia, il medievista Tommaso di Carpegna Falconieri, i Conti di Carpegna per secoli si barcamenarono fra vicini molto più potenti, dagli stessi Montefeltro ai Malatesta (anche questi loro parenti come pure i Da Faggiola, sempre stando a certe tesi). Sopravvissero a entrambi, nonostante parecchie crisi che potevano spazzarli via. Finchè un’altra sliding door li fece assurgere al Principato.

Il primo serio pericolo arriva il 23 marzo 1458. I Carpegna ormai da tempo hanno scelto i Malatesta e Federico da Montefeltro invade e devasta la Contea, prende e saccheggia le fortificazioni compresa la rocca antica di Carpegna, dove nell’incendio va distrutta parte dell’archivio con molti importanti di atti proprietà. Il Conte Lamberto, spalle al muro e la moglie Caterina presa prigioniera, chiede al capitano dei feltreschi Giacomo Piccinino di poter uscire dalla mischia abbandonando Sigismondo Pandolfo Malatesta. Il Re di Napoli Ferdinando d’Aragona si fa garante e Federico accetta, anche perchè apprezza molto il valore militare di Lamberto. Ma la scelta non è indolore, nella famiglia non mancano contrasti. Alla morte di Lamberto, nel 1463 si arriva a una suddivisione che fa nascere due rami: a suo fratello Francesco, rimasto legato a Malatesta Novello di Cesena fratello di Sigismondo, vanno Scavolino, Bascio, Gattara e Miratoio; a Giovanni e Federico orfani di Lamberto toccano Carpegna, Castellaccia, Torre dei Fossati e Palazzo Carignano.

Bascio

Entrambi i rami potranno fregiarsi del titolo di Conti di Carpegna. Ma continuano a sentirsi come vasi di coccio fra quelli di ferro. E così nel 1490 vanno a mettersi sotto la protezione di Lorenzo de’ Medici, che volentieri accetta. In cambio, in mancanza di eredi maschi le Contee sarebbero state inglobate dalla Repubblica del giglio. Con Firenze non si scherza e il protettorato si rivela subito prezioso ad arginare la cupidigia di Urbino.

Ma la clausola successoria produrrà infiniti strascichi e anche momenti drammatici. Come il 21 gennaio 1570, quando il Conte Giovanni III, unico figlio di Orazio, muore a soli 18 anni. Lascia la moglie Beatrice et si dice essere questa gravida. Dio faccia quello che è per il meglio”. Era vero? E sarebbe stato maschio? Urbino e Firenze entrano in fibrillazione. Subito appaiono a Carpegna i messi di Cosimo I de’ Medici per “proteggerlo” in virtù del trattato di 80 anni prima e offrendosi al contempo di ospitare la gestante.

Cosimo I de’ Medici (Bronzino, dopo il 1545)

Ma il Duca d’Urbino Guidobaldo II Della Rovere tutto vuole meno che ritrovarsi il Granducato sotto casa, ben memore della terribile guerra di appena 43 anni prima. La giovanissima vedova in dolce attesa viene così custodita a Gubbio (che allora è nel Ducato di Urbino) e la gravidanza prosegue fra trame e ansie occhiute di Fiorentini e Urbinati. Finchè, il 17 settembre, “nacque un figlio del conte Giovanni di Carpegna e fu di domenica, a hore doi di notte, veniente il lunedì; della qual natività si rallegrò tutta la città”: così almeno nel dispaccio inviato a Guidobaldo. Meno esultante quello spedito da Gabriele Tarulli, emissario di Cosimo: “…quanto dolore ho avuto al mio core che è stato maschio, Idio lo sa lui, ma sed era maschio io non lo potia far fare femina”. Il bambino viene chiamato Orazio, come il nonno che si era coperto di gloria. La discedendenza dei Carpegna è salva e con essa l’indipendenza.

Guidobaldo II della Rovere Duca di Urbino ritratto da Tiziano Vecellio nel 1545 (Yale University Art Gallery, New Haven)

Anche Orazio II si farà onore in guerra, mentre al nipote Gaspare, potente e coltissimo Cardinale, si deve il sontuoso Palazzo (1696) edificato con gran spesa nella culla degli avi. Intanto la famiglia è ascritta al patriziato di Roma e là vive da tempo. E nell’Urbe ancora si ammirano il Palazzo dei Principi Carpegna continguo alla Fontana di Trevi (del Borromini, dal 1934 sede dell’Accademia Nazionale di San Luca) e Villa Carpegna con il suo parco di 7 ettari nel quartiere Aurelio (di Giovanni Antonio De’ Rossi, lo stesso architetto del Palazzo a Carpegna).
.

I Cardinali Ulderico e Gaspare di Carpegna

A non essere da meno, anche il ramo di Scavolino esprime contemporaneamente un altro Cardinale, Ulderico (1595 -1679). Ma l’omonimo Conte Ulderico, uomo d’arme come tutti gli antenati, fa molto di più: volontario in Ungheria, combatte a fianco dell’imperatore Leopoldo I contro i Turchi; un Tommaso di Carpegna era morto nel 1601 sempre in terre magiare durante il disastroso assedio agli Ottomani di Canissa (Nagykanizsa) agli ordini di Ferdinando II, nonno di Leopoldo. Là Ulderico compie tali “prodigi di valore” che il sovrano asburgico nel 1685 gli concede il titolo di Principe del Sacro Romano Impero col predicato di Bascio, unitamente al diritto di partecipare alle diete imperiali con potere di voto. Il Carpegna non può che ricambiare battendosi da eroe “nell’assedio et espugnatione di Buda” dell’anno successivo. E pensare che da giovane, quando viveva a Parigi, aveva trattato per vendere la sua Scavolino al Re Sole, con i Francesi per qualche momento seriamente tentati di conficcare il loro Oriflamme fra Papa e Granduca.

Leopoldo I d’Asburgo (Benjamin von Block, 1672)

Principato e Contea vivono esistenze parallele di stati minuscoli ma non miseri, certo più prosperi della rocciosa San Marino. Mancano vite e olivo, troppa l’altitudine; i cereali bastano sì e no all’autosufficienza. Però le esportazioni di bestiame, lane e formaggi vanno a gonfie vele grazie agli ottimi pascoli; già sono rinomati i “Presciutti di Montagna”. E le foreste danno legname, carbone, noci, funghi e caccia. In quanto Stati sovrani le due Carpegne possono comprare il sale di Cervia al prezzo di mercato e non a quello del monopolio pontificio. Vige il diritto d’asilo e nessun forestiero, sebbene criminale, può essere restituito alla sua patria senza formale procedura di estradizione. Le leggi da rispettare sono gli Statuti locali. Quelli di Carpegna risalgono al 1471, raccogliendo anche disposizoini precedenti; nell’emanare i suoi, Tommaso di Carpegna (1560-1610) si definisce “libero signore, e padrone libero et assoluto di Gattara et suo Stato”. I due sovrani firmano editti intestati con le formule “Dei Gratia Princeps” e “Dei Gratia Comes“. Ciascuno ha un suo esercito con fanteria, cavalleria e artiglieria (a Carpegna nel 1819 una settantina uomini, che però erano ben il 7% della popolazione). I Governatori (i Signori come detto risiedono stabilmente a Roma) amministrano la giustizia fino alla pena di morte. Il popolo è rappresentato da quattro Priori estratti a sorte ogni due anni fra i 40 capifamiglia Consiglieri a vita.

C’è una (mite) tassazione in proprio. Lo stato stipendia governatore, bargello, medico, maestro e campanaro, il quale governa l’ora ufficiale del pubblico orologio. Ci sono un Monte di Pietà, una “Pubblica Beneficienza” e un “monte frumentario”, non prosperissimo. L’artigianato copre ogni mestiere. La gente gode di buona salute e campa a lungo: “Anche in questi nostri tempi habbiamo conosciuto i vecchi di cento diece anni et molti poi di cento anni”, scrive il carpegnolo Pier Antonio Guerrieri nella seconda metà del Seicento. Anche se ne segnala il carattere fazioso e non solo in politica: “Dove si giochi a Palla o Pallone, ciascuno s’appiglia ad attenersi ad una delle due parti”. Ma “in questo stato di Carpegna tutti vi hanno la sua propria habitatione, e terre insieme… sì che nessuno di lor può dirsi mendìco, possedendo case e terreni”. Non pochi fanno discrete fortune; come i Conti Valloni di Castellaccia, che quando nel Settecento si trasferiscono a Rimini, dopo un terremoto si fanno ricostruire il palazzo sul Corso dal celebre Giuseppe Valadier: oggi è il Cinema Fulgor.

Come la confinante San Marino, di cui i Carpinei si ergono difensori a cospetto del mondo, gli staterelli mettono a frutto le loro prerogative. Significativo che a Carpegna nel Settecento vi siano due floride industrie, cioè un molino per la produzione di polvere da sparo e la stampa delle carte da gioco, mentre molte terre sono destinate a coltivare tabacco. Tutti articoli sottoposti a monopolio e tassazioni asfissianti nei limitrofi stati pontifici e toscani, come del resto ovunque. Meno che qui, dove il contrabbando ha lasciato tanti ricordi anche nei nomi dei sentieri sul monte Carpegna.

Francesco I di Lorena (Martin van Meytens, 1750 circa)

“Questi conti di Carpegna sono antichissimi in Italia, ed hanno i loro stessi castelli non sotto il dominio della Chiesa, ma dichiarati liberi dai più antichi imperatori”, si legge in una glossa dantesca del ‘400 circolante in Montefeltro. Dove comandano in due non comanda nessuno e la sovranità contesa preserva e protrae l’indipendenza di fatto dei due stati.

Chi non si rassegnerà mai è il terzo incomodo. Quei fazzoletti di terra fra i monti feretrani, ai Fiorentini sono rimasti sullo stomaco. Il Granducato tenta anche un paio di invasioni armate, suscitando però tali vespai diplomatici da dover mollare. Si mastica amaro soprattutto quando proprio il Principe Ulderico muore senza figli maschi nel 1731; si era però premunito tre anni prima designando erede il nipote marchese Emilio Orsini de’ Cavalieri Sannesi. Trovandosi nella medesima condizione, lo stesso fa a Carpegna il Conte Francesco Maria, testando nel 1747 in favore del nipote Antonio, figlio del marchese Mario Gabrielli di Roma e della propria figlia Laura, con l’obbligo di assumere lo stemma e il cognome di Carpegna. Il bolognese Papa Benedetto XIV benedice tutto quanto, cogliendo così anche occasione per ribadire la propria sovranità. Ma alla corte granducale la vedono all’opposto: la clausola del 1490 parla chiaro, nondimeno viene infranta.

Nel 1745 Francesco Stefano I di Lorena si ritrova sia Granduca di Toscana che Imperatore, pertanto signore feudale del Principe di Bascio; quattro anni dopo invade Scavolino e Carpegna, addirittura intima a San Marino di restituire Serravalle, Fiorentino e Montegiardino in quanto ancestrali possedimenti carpinei. Per dirimere il caso ci vorranno sei anni di laboriose trattative a livello europeo. La pace di Aquisgrana appena l’anno prima aveva sancito che da allora in poi i confini degli stati non sarebbero mai più cambiati; dopo mezzo secolo di guerre di successione, tutti ne avevano abbastanza e anche una minuscola infrazione avrebbe potuto minare l’equilibrio faticosamente raggiunto. Ma solo quando si ritrova contro il Papa e i Re di Spagna, Francia e Sardegna, Francesco I decide che le truppe toscane possono tornare a casa.

Gattara in una vecchia fotografia

I titoli cesariani vengono buoni mezzo secolo dopo. Nel 1797 i Francesi di Napoleone fanno un solo boccone dell’Italia, ma le armi della République rivoluzionaria non solo rispettano la progenitrice libera Repubblica del Titano, ma si arrestano anche di fronte agli stati imperiali “delle due Carpegne”. Solo nel 1804 gli scrupoli verrano meno e il Regno d’Italia ingloberà anche Contea e Principato; perseverando nelle esitazioni confinarie, dapprima li inserisce nel Dipartimento del Metauro distretto di Urbino, dal 1811 in quello del Rubicone distretto di Rimini. Torneranno ai legittimi proprietari con la caduta del Bonaparte nel 1815. E nel 1817, trascorsi 354 anni, finalmente si riuniranno. Per poi terminare insieme la loro libera esistenza solo due anni dopo.

Il 6 luglio 1816 Papa Pio VII aveva emanato il motu proprioQuando per ammirabile disposizione”. Spenta la rivoluzione giacobina, debellato “l’Anticristo” Napoleone, la Chiesa ne accoglie – o meglio ne mantiene – fondamentali innovazioni. La stragande maggioranza dei luoghi di culto sconsacrati dai napoleonici non viene ripristinata, anzi si prosegue a venderli ai privati, comprese ex-cattedrali come quella di Santa Colomba a Rimini. Nell’atto del cesenate Papa Chiaramonti ci sono sono l’abolizione definitiva della tortura, una moderna riforma fiscale, addirittura il disegno di un primo codice civile. Ma soprattutto viene abolito il rapporto di vassallaggio feudale (Titolo 2, art. 29), tramutando tutti i titoli nobiliari concessi dal papato e ancora in essere come onorifici e quindi slegati dal possesso diretto della terra. Gaspare ha un bel protestare che i suoi non sono feudi, ma un “dominio originario, libero e franco”, per non dire dell’irrisolta questione sull’alta sovranità. Tutto vano di fronte all’incombente alternativa di vedersi incamerare i possedimenti romani da Pio VII.

Leopoldo II di Toscana in un ritratto di Pietro Benvenuti, (1828)

Finita qui? Non certo a Firenze. Già l’azione del 1819 aveva suscitato ben due note ufficiali di protesta del governo toscano, cui il grande Segretario di Stato Cardinal Momsignor Ercole Consalvi si dovette dar pena di rispondere. Ma siamo ormai nel 1847 quando, volendosi mettere ordine alla babele confinaria che abbiamo conosciuto, il Granduca Leopoldo II riapre la vertenza con la Santa Sede. Solo l’uragano di rivoluzioni del Quarantotto fa arenare il fascicolo nelle cancellerie. Ma appena le acque si placano, già nel ’52 i toscani tornano alla carica e lo Stato della Chiesa è costretto a controbattere con una dettagliata memoria scritta. Si sguinzagliano allora l’Avvocato Giovanni Lorini e Giuseppe Mantellini, Direttore delle Riformagioni di Firenze, perchè scovino tutte le pezze atte a reggere le pretese granducali. I due giuristi lavorano otto anni e alla fine danno alle stampe il “Voto a favore della Toscana nella vertenza con la S. Sede sulla sovranià delle antiche contee di Carpegna e Scavolino”, ignorando perfidamente il Principato. Ma quando i torchi non gemono più è il 30 maggio 1860: il Granducato di Toscana ha cessato di esistere un mese prima. Ed entro l’anno anche lo Stato della Chiesa sconfitto dal nascente Regno d’Italia deve rinunciare alla sua sovranità su Carpegna e Scavolino; agognata per dieci secoli, l’ha esercitata per 41 anni.

Palazzo Carpegna

Carpegna ha perduto da tempo la rocca antica, ma al centro del paese ancora risplende il meraviglioso palazzo del Cardinal Gaspare. Non resta nulla invece di quello fatto costruire nel 1576 a Scavolino dal Conte Tommaso sul luogo di un castello risalente almeno all’XI secolo; stabilì qui la sua residenza dopo aver abbandonato Gattara. Non l’elegante buen retiro cardinalizio che pare catapultato direttamente da Roma, ma un austero palazzo-fortezza che doveva unire gli agi alle necessità militari. Dopo l’abbandono a metà Ottocento, l’incuria lo ha ridotto letteralmente in briciole. La sua mole ancora si vede solo in foto del primo Novecento.

Il Palazzo del Principe di Scavolino ai primi del ‘900

Il Palazzo di Scavolino nel 1972 (in “Rocche e castelli di Romagna III”, foto di Gianfranco Fontana)

Cinquant’anni fa erano ancora visibili imponenti ruderi emergenti da cumuli di macerie. Oggi si fatica a distinguere anche quelli; la vegetazione li ha inghiottiti come in una giungla birmana. E trattandosi per lo più di formidabili rovi – i marugòun del dialetto locale – si tratta di un cinta impenetrabile.

Il Palazzo di Scavolino oggi

Solo un piccolo accesso conduce in un vano semisepolto nascosto fra muraglie diroccate. Ai piedi dello scoglio su cui fu eretto il Palazzo – lo scabulum, “gradino” posto esattamente a metà dei 1.415 metri del Monte Carpegna, che avrebbe dato origine al nome – è rimasto il suo Borgo, con le case attorno alla piazza. Qui è l’edificio del Comune di Scavolino, soppresso nel 1928; sotto il suo portico è appeso uno stemma del Principato di modesta fattura. Sempre in piazza, in una bella gigantografia da uno scatto dei primi del ‘900 si possono ammirare il Palazzo e gli abitanti del Borgo.

Il Comune di Scavolino

Stemma del Principato sotto il porticolo comunale

Sulla piazza di Scavolino

C’è ancora, notevolmente rimaneggiata, la chiesetta cinquecentesca dedicata a Santa Mustiola; quando era plebale vi furono seppelliti diversi personaggi della dinastia. Mustiola (“Dolce come il mosto”? “Moscerina”? ma più plausibilmenteDonnola”) fu la martire di Chiusi del III secolo le cui storie meritano, e hanno avuto, narrazioni a parte. Basti ricordare la per nulla metaforica “Guerra dell’Anello” combattuta fra Chiusi e Perugia nel 1473 dopo il furto della reliquia, che rimase da allora ai Perugini. Si credeva che l’anello ritrovato nel sepolcro della martire fosse quello nuziale regalato da San Giuseppe a Maria, nonchè portentoso contro ogni male degli occhi. Da parte sua Mustiola per fuggire da suoi persecutori avrebbe attraversato il lago di Chiusi sorretta dal suo mantello.

“Santa Mustiola col Santo Anello” (Trittico della Giustizia, particolare. 1475 ca. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria)

La chiesa di S. Mustiola sovrastata dal Monte Carpegna

Santa Mustiola è la patrona principale di Chiusi; l’unico altro centro che l’ha scelta come protettrice è proprio Scavolino. L’età e la diffusione del culto sembrano corrispondere ai domini longobardi; è particolarmente vivo in parte della Toscana (Senese, Aretino, Pisano) e in Umbria, ma si è irradiato fin nelle terre matildee nel Mantovano (Revere), e nel Reggiano (Bagnolo in Piano) e in quelle marchigiane che furono del Ducato di Spoleto (Peglio). Discendendo la Valmarecchia, ha raggiunto anche San Marino, in un sito abitato fin dall’Età del Bronzo e almeno fino al VI secolo d.C. Francesco Vittorio Lombardi ha riconosciuto la presenza dei Longobardi nei pressi di Carpegna nel nome antico della Castellaccia (Castrum Arimannorum), mentre a Monterotto vicino a Villagrande c’era Castrum Armani.

“Santa Mustiola” (anonimo del ‘600, copia di un’opera annoatata dallo stesso Guido Cagnacci ante 1637)

Nel 2019 nella catacomba di Santa Mustiola a Chiusi  è stato rinvenuto un cranio di una donna di circa 40 anni allungato in modo abnorme. Una delle rare attestazioni italiane di “compressione anulare, probabilmente con doppio bendaggio, databili tra la fine del V e il VI secolo dC, in relazione all’arrivo di popolazioni germaniche orientali che praticavano questo tipo di volontaria deformazione” (“Un caso di deformazione cranica artificiale dalla catacomba di Santa Mustiola”, Alessandra Sperduti, Luciano Fattore, Claudio Cavazzuti, Stella Interlando). A differenza di Unni e Àvari, pare che Burgundi, Gèpidi e Longobardi la riservassero alle donne di alto lignaggio.

Culto comunque rimasto locale; in età moderna l’unico autore di rilievo che ritrae la Santa chiusina è nel Seicento il santarcangiolese Guido Cagnacci; ne restano solo copie e non si conosce il committente. La famiglia di Cagnacci era originaria di Urbania, la Castel Durante dei Brancaleoni già alleati di Carpegna e Malatesta, dove era nato il suo contemporaneo Domenico Peruzzini che dipinse Santa Mustiola per la chiesa di Peglio.

Panorama della Valmarecchia dal Palazzo di Scavolino: a sinistra il monte di Perticara, sulla destra la vetta aguzza di Maiolo

 

I ruderi del Palazzo sommersi dala vegetazione, sullo sfondo si intravede Pennabilli

Per immaginare come doveva essere il Palazzo ci resta solo qualche descrizione. La più dettagliata è nelle lettere del romano Gianmaria Lancisi, Archiatra di due pontefici, che vi fu ospite del Principe Ulderico nel 1705.

Il luminare della medicina ammira il panorama, sebbene il “pregiudizio d’aver l’Oriente e la metà del mezzo giorno coperti dal monte Carpegna, il quale nel fondo dell’inverno gli ruba il sole fin passate le venti ore”. Ma Scavolino ha “il fianco verso la Penna di fronte verso il fiume Marecchia una delle vedute più amene e più belle del mondo, perchè è mista di valli, di monti, di terre, di ville e di mare”. Prende nota di mura, torri, baluardi, portone con ponte levatoio e “orologio di sopra”. Passa in rassegna “quantità grande di spingardi” e “la guardia di soldati con pistola alla mano e loro caporale con Brandistocco”: era un’asta con forca a tre punte, quella centrale più lunga. Spiega che tale marziale dispiegamento è “cosa che hanno costumata sempre i vecchi di questa casa”.

Brandistocchi nel Museo delle armi “Luigi Marzoli” di Brescia

Poi son solo lodi per la disposizione interna: “Non ha quei gran stanzoni i quali rendono contento e gabbato il loro padrone ma però vien diviso in mediocri ed in piccole stanze tutte belle e con le più ingegnose commodità, che si possono desiderare”. Ciascuna ha infatti “la sua scaletta segreta che conduce sopra o sotto e dà ogni libertà agli ospiti della medesima”; hanno “letti, tolette, inginocchiatoio, biancherie, commodità da scrivere”. Trova a disposizione “catinelle con uomini che ci servissero, per lavare il viso e le mani” e il prezioso barbiere. Le stanze “per persone nobili” sono quindici, tutte sullo stesso pian terreno. Quello superiore è riservato al Principe: “Vi si sale per tre scale molto agiate”. Ci sono inoltre la Cappella, il teatro, la grande piazza d’armi.

La porta del Palazzo ai primi del ‘900

E l’Archiatra pontificio suggella così la sua recensione: “Insomma io non ho mai veduto un pensare più estesso, più celere e più giusto in materia di alloggio”.

Stefano Cicchetti

(nell’immagine in apertura, l’ultima bandiera della Contea di Carpegna conservata nel Palazzo del Cardinal Gaspare)

Ultimi Articoli

Scroll Up