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20 giugno 1935 – Cesare Brandi riscopre la Scuola Riminese del Trecento

Il 20 giugno 1935 si apre al palazzo dell’Arengo di Rimini la mostra  su “La Pittura Riminese del Trecento” curata interamente da Cesare Brandi. La mostra si chiuderà il 30 settembre dello stesso anno.

Cesare Brandi

Cesare Brandi

Brandi, a 27 anni, nel 1933 aveva vinto il concorso per Ispettore nei ruoli dell’Amministrazione delle Antichità e Belle Arti e quindi era passato alla Sovrintendenza ai Monumenti di Bologna, sezione medievale.

Come scriverà Antonio Paloucci nel 1995, presentando una mostra analoga a Rimini, «Si tratta della prima ricognizione moderna in un settore della storia artistica italiana fino a quel momento incognito oppure conosciuto solo per episodi parziali e disarticolati. È merito di Brandi (…) la sistematica organizzazione e l’ulteriore elaborazione degli spunti critici e delle proposte filologiche. (…) È suo grande merito (…) aver incardinato una volta per sempre ad alcune idee fondamentali la storia della scuola pittorica riminese».

Pietro da Rimini: "Donne al Sepolcro e Resurrezione"

Pietro da Rimini: “Donne al Sepolcro e Resurrezione”

Ma che cosa è tanto importante nel lavoro di Cesare Brandi? «In primo luogo la percezione della qualità – spiegava Paolucci – che si esprime in persone e in episodi di assoluta eccellenza senza che mai venga meno, anche negli artisti meno rappresentativi, quel carattere “corale, unanimistico” quella compatta riconoscibile fraternità di umori e di accenti prima ancora che di stile, che è il segno vero di ogni grande “scuola” di pittura».

E ancora:  «L’altro concetto fondamentale affermato da Brandi riguarda il primato giottesco. Tutto nasce dal cantiere di Assisi. (…) Dall'”internazionale pittorica assisiate” si irradiarono (…) tendenze diverse che, innestate in contesti culturali differenziati, diedero origine alla mirabile varietà del trecento italiano. Rimini fu uno di quegli esiti».

Giovanni da Rimini: "Scene della vita della Vergine"

Giovanni da Rimini: “Scene della vita della Vergine”

Un altro aspetto importante di quella mostra, anch’esso sottolineato da Paolucci, fu il catalogo. Stampato dalle Tipografie Garattoni a Rimini in occasione della mostra, non si limitava infatti a descrivere le opere esposte, ma offriva il repertorio più completo allora disponibile degli affreschi – che ovviamente non era possibile portare in mostra – presenti in Rimini ma anche in altre città, le opere possedute da collezioni estere, gli indici degli artisti e dei luoghi, oltre al largo uso della documentazione fotografica non ancora così frequente. Fra l’altro, proprio queste foto sono oggi ancora più preziose, essendo le uniche immagini rimaste di opere come gli affreschi della basilica ravennate di Santa Maria in Porto Fuori,  distrutti da un bombardamento durante la seconda guerra mondiale.

Gli affreschi perduti di S. Maria Porto Fuori, a Ravenna

Gli affreschi perduti di S. Maria in Porto Fuori, a Ravenna

Fu solo in durante quell’estate del 1935 che la grande cultura italiana, ma anche tantissimi riminesi, vennero a conoscenza dei nomi di maestri come Pietro Baronzio e Pietro, Giovanni, Neri, Zangolo,  tutti “da Rimini”. Mentre altri, di cui non era possibile stabilire con certezza l’identità, venivano battezzati convenzionalmente il “Maestro dell’Arengo”, il “Maestro di San Pietro in Sylvis” (a Bagnacavallo), il  “Maestro della Cappella di San Nicola” (a Tolentino).

Il "Cappellone di San Nicola" a Tolentino

Il “Cappellone di San Nicola” a Tolentino

Secondo la tesi di Brandi, tutto scaturì dal passaggio di Giotto a Rimini verso il 1303, dopo i lavori di Assisi e prima di andare a Padova, dove avrebbe dipinto la Cappella degli Scrovegni. Oltre la magnifico Crocifisso di San Francesco (che riprendeva lo schema del Crocifisso di Santa Maria Novella), Vasari riferisce che Giotto eseguì altre opere in città: affreschi sia nello stesso futuro Tempio malatestiano, sia in San Cataldo, importante chiesa dei Domenicani di cui oggi non resta traccia. Giotto non lavorava da solo, ma era solito servirsi di una folta schiera di collaboratori. Non è difficile immaginare che a Rimini abbia trovato un gruppo di artigiani già attivi, che adattarono la loro esperienza e sensibilità alla rivoluzionaria lezione del maestro toscano.

Gli affreschi della pieve si San Pietro in Sylvis a Bagnacavallo

Gli affreschi della pieve di San Pietro in Sylvis a Bagnacavallo

La Scuola Riminese produsse dei capolavori anche nel campo della miniatura. Dopo il 1350 non non si ha però più traccia di essa. L’ipotesi è che la Peste Nera del 1348, avendo ridotto di due terzi la popolazione riminese, abbia bruscamente azzerato anche la corporazione dei pittori. La tesi però presuppone che la “scuola” fosse formata da un una cerchia assai ristretta di artigiani, i più imparentati fra loro, senza che vi fosse una diffusa pratica dell’arte in città da parte di altri nuclei che ne continuassero l’opera, almeno a quei livelli di qualità. D’altra parte, sono rarissime dalle nostre parti le opere della seconda metà del Trecento sopravvissute fino a noi; fanno eccezione quasi solo gli affreschi ritrovati del castello di Montefiore e attribuiti al bolognese Iacopo Avanzi.

(nell’immagine di apertura, il Crocifisso di Giovanni da Rimini a Mercatello sul Metauro)

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