“…e fu a’ 19 di luglio il presentarsi che fece di rimpetto a questo porto un Brich Inglese e il combattimento durato un’ora tra esso e quattro cannoniere repubblicane, che si trovavano nel porto medesimo. Si scambiarono bravamente dei colpi dall’una e dall’altra parte senza reciproca offesa, fin che il Brich, visto che indarno spendeva il suo tempo, prese il largo e sparve dagli occhi. Ne diedero pubblica notizia ne’ fogli di Venezia i nostri repubblicani esagerando, secondo il Cronista Zanotti, il fatto a prò loro”. Così Carlo Tonini nel suo “Compendio della Storia di Rimini” per l’anno 1804.
I “fogli”, cioè i giornali, avranno senza dubbio esagerato la notizia trasmessa dai “nostri repubblicani”. Eppure questa modestissima scaramuccia ha un suo significato storico. Non solo perchè un legno inglese una volta tanto è costretto a scappare, fatto insolito ai tempi – che sono quelli di Lord Nelson, un nome per i tanti – in cui la flotta britannica costruisce la sua fama di invincibiltà. Soprattutto, è la prima volta che la Marina della Repubblica Italiana si scontra in mare con il nemico. Inalberando il suo tricolore bianco, rosso e verde. Nemico può che essere solo inglese, poichè quella italiana è detta “sorella” (per non dire figlia, se non satellite) della République française di Napoleone. Ancora per poco, dato che il Buonaparte pur essendone ancora Presidente, nel maggio di quel 1804 è già stato proclamato Imperatore dei Francesi e l’anno dopo verrà incoronato Re d’Italia.
La Repubblica Italiana era stata creata nel 1802 per succedere a quella Cisalpina, a sua volta erede della Cispadana. Comprendeva la Lombardia (più Novara), Ferrara (e il Polesine), Reggio Emilia, Modena, Bologna e “le Romagne”. La bandiera era appunto il tricolore al quale s’ispira l’attuale Stendardo Presidenziale Italiano adottato da Carlo Azeglio Ciampi nel 2000.
Ma torniamo a quel 1804. Delle quattro cannoniere uscite dal porto di Rimini conosciamo i nomi, sebbene nè il reazionario Angelo Zanotti (contemporaneo ai fatti) nè l’approssimativo Carlo Tonini (che “compendia” nel 1896) si degnino di ricordarli. Erano: il Marengo, L’Italiana, La Batava (di stanza a Cesenatico) e La Vittoria, che per la precisione era un “obusiere”, armato cioè di un singolo obice. Le cannoniere imbarcavano invece tre pezzi di artiglieria; quello più grosso “in caccia”, cioè sulla prua, gli altri due sulle fiancate.
La “forza flottante” della “divisione sottile” di Rimini dispone anche di un trabaccolo munito di 10 pezzi; era stato da poco acquistato dall’armatore riminese Passano, classificato pomposamente “goletta” e ribattezzato Napoleone, ma per qualche motivo non aveva partecipato allo scontro; un altro trabaccolo sempre del Passano era stato chiamato Melzi (in onore del Vicepresidente della Repubblica Francesco Melzi d’Eril) e destinato all’altra “divisione sottile”, quella di Goro. Le due divisioni, di uguale forza, componevano la “Flottiglia nelle acque adriatiche dalla fine dell’Adige al Tronto”, come riportano Virginio Ilari e Piero Crociani (“La marina italiana di Napoleone”). Si tratta della prima Marina di uno stato che si proclama italiano. Per la prima volta il tricolore sventola in mare. A Rimini ha il suo battesimo del fuoco.
Non sappiamo nulla invece di quel “Brich”, ovvero un brick, brigantino. All’epoca un brick inglese portava solitamente 18 cannoni e una quarantina di uomini di equipaggio. Veliero a due alberi, di trinchetto a vele quadre e di mezzana a vele auriche, poteva andare dalle 100 alle 300 tonnellate.
Non è la prima volta che gli Inglesi si affacciano da queste parti, e non sarà l’ultima. Britannia rules: la Gran Bretagna domina i mari e non fa eccezione con l’Adriatico, stringendo d’assedio con il blocco navale il terrestre impero napoleonico. Il 27 agosto 1809, sempre stando al Tonini, “si sentì dalla parte del Cesenatico un forte cannoneggiamento. La Municipalità, ricevutone avviso, spedì tosto a quella volta un Vincenzo Sensoli per averne informazioni. Tornato il Sensoli fra poche ore riferì che nella scorsa notte gli Inglesi vi aveano fatto sbarco, incendiando parecchie barche cariche di merci, e recando al porto e alla Terra gravissimi danni; finché suonatosi campana a martello, gli invasori eransi messi in fuga e rimbarcati”.
Infatti gli Inglesi avevo distrutto fra l’altro la cinquecentesca Torre Pretoria che presidiava la bocca del porto di Cesenatico con due cannoni e la catena per chiuderne l’accesso. Ma andiamo avanti: “Il Moroni Comandante di piazza fece subito rinforzare le guardie alle porte e a tutti i posti, e percorrere dai dragoni a cavallo, che qui erano, la città e la marina. Nè vano fu il timore, chè dopo il meriggio si videro parecchi legni inglesi, provenienti dal Cesenatico, fermarsi a poca distanza in faccia al nostro porto; onde subito le poche forze, che stavano qui di presidio, insieme con quanti sostenevano il presente ordine di cose, corsero immediatamente armati sul porto e sulla spiaggia per opporsi allo sbarco che i nemici tentassero”.
Ma le navi nemiche non si avvicinano. Invece, “ecco entrare frettolosamente in porto due nostre barche peschereccie, e i loro paroni con ordine di consegnarne uno agli abitanti del Cesenatico, e l’altro alla Municipalità di Rimini, dai quali sarebbesi conosciuto il motivo del contegno tenuto contro il Cesenatico e di quello che minacciavasi contro la stessa Rimini”. Nelle lettere gli Inglesi spiegavano di aver così maltrattato Cesenatico perchè vi era trattenuto un loro corriere, che lì aveva fatto naufragio. Mentre Rimini era avvertita che “le barche peschereccie di questi porti non fossero convertite in corsare a pregiudizio del commercio britannico e di quello degli alleati”, altrimenti avrebbe avuto la stessa sorte.
Rimini dunque covo di corsari? Nè più ne meno come qualsiasi altro porto, dal momento che tale attività era del tutto normale ancora a quell’epoca per qualsiasi navigante. Tutte le nazioni belligeranti avevano flotte di corsari muniti di regolari “patenti” e tutte le imbarcazioni potevano venire utili alla bisogna, dalla più piccola alla più grande.
Ma l’avvertimento inglese non doveva essere affatto casuale. Proprio da Rimini – e torniamo a quel fatidico 1804 – aveva infatti preso il mare la prima corsara della Repubblica Italiana. Il 24 febbraio di quell’anno salpa “per il Levante” lo sciabecco Generoso Melzi, da 6 cannoni e 46 uomini, armato da Alessandro De Cumis e comandato dal capitano Salvatore Puricelli.
Lo sciabecco fu forse l’imbarcazione più versatile, e bella, che solcò il Mediterraneo fra il XIV e il XIX secolo. Di origine araba e lontano discendente del dromone dei greci “bizantini”, poteva andare bene per la pesca, per il commercio come per la guerra. Lungo e sottile, leggero e velocissimo, aveva tre alberi con vele latine e fiocco latino tra bompresso e trinchetto. Ma disponeva anche di remi (da otto a dodici) per navigare anche controvento o in bonaccia. Nel Settecento aveva raggiunto il suo massimo sviluppo, fino a 300 tonnellate e armato anche con 20 cannoni, utilizzato da tutte le marinerie mediterranee. Ed era il legno preferito sia dai pirati senza legge che dai corsari “legali”, ma anche da chi dava loro la caccia. C’era poi lo “sciabecco-fregata”, con il trinchetto a vele quadre e fino a 34 cannoni, ancora più veloce e boliniero, ma anche più fragile. Perchè il punto debole di questo splendido puledro del mare era proprio la scarsa resistenza che poteva opporre alle bordate di una lenta ma solida corvetta di pari armamento, per non dire dei mostruosi vascelli a tre ponti che potevano spianare fino a 120 cannoni. Ma corvette, fregate e vascelli andavano piano e non dappertutto, mentre lo sciabecco arrivava ovunque e più in fretta.
La “Flottiglia dell’Adriatico” era stata ufficialmente approntata solo il giorno prima, il 23 febbraio 1804, dal che si comprende l’importanza della guerra corsara e la stretta connessione con quella “ufficiale”: quella del Generoso Melzi è la prima missione della neonata unità della Repubblica Italiana. E proprio dai corsari i franco-italiani si ebbero i migliori risultati in una infinita guerra marittima per il resto disastrosa contro gli Inglesi e i loro alleati russi, montenegrini e greci, che ebbe il suo apice fra il 1807 e il 1814, quando la Repubblica era diventata Regno d’Italia e comprendeva anche Venezia e alcuni dei suoi antichi possedimenti in Dalmazia.
Fa parte di questa guerra l’epopea dei “Corsari anconetani”. Imprese mai narrate da romanzi, fumetti e film hollywoodiani, avvenute in Adriatico e non nei Caraibi, ancora nel XIX secolo e non in età barocca. Corsari in prevalenza corsi e genovesi, a iniziare dal leggendario Giuseppe Bavastro da Sanpierdarena. Ancona era la base principale e dorico era Giacomo Carli, ma Francesco Prebois era di Marsiglia, Giustiniano Solari di Capraia, Domenico Buscia di Bastia. E dalla Corsica, passando per Genova, venivano armatori e capitani che si erano stabiliti per un certo tempo a Rimini, come i fratelli Passano del “Melzi” e Bartolomeo Paoli con il suo “Il Pino”.
Una storia pochissimo raccontata, forse per la proverbiale estraneità della cultura ufficiale italiana alle cose di mare – all’opposto di quella inglese. Per questi personaggi la causa di Napoleone e l’appartenenza alla Massoneria erano un tutt’uno. Con conseguenze decisive sulla storia d’Italia. Nel 1834 sarà infatti Francesco Passano a iniziare un ventinovenne Giuseppe Mazzini nel carcere di Savona, anche se poi “l’apostolo del Risorgimento” tenderà a minimizzare quel passaggio massonico fino a ridicolizzarne anche il rituale, dovendo porre in primo piano la sua Giovine Italia.
(Nell’immagine in apertura, cannoniere danesi assaltano la fregata inglese Tartar vicino ad Alvøen in Norvegia, 11 maggio 1808, Autore sconosciuto)