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15 marzo 1855 – A Rimini scoppia il colera e provoca una strage

A Rimini, il 15 marzo 1855 un pescatore del Borgo San Giuliano si sente male. Muore dopo tre giorni. I medici non hanno dubbi: è arrivato il “morbo asiatico”, cioè il colera. L’epidemia sta infatti già aggredendo l’Italia dopo essere giunta, si dice, dal porto di Genova.

La città di Rimini nel 1855 ha 17.627 abitanti. Se ne ammala quasi uno su dieci: 1.264. Con una mortalità altissima: ben 717 decessi, oltre il 56%. Andò ancora peggio a Ravenna, con più di 1.600 morti. E a Bologna furono 4 mila, quasi 30 mila in Toscana, addirittura oltre 140 mila in tutta Italia. Cifre di cui peraltro oggi si dubita, perché in non tutti gli staterelli dell’ancora disunita Penisola il morbo venne censito adeguatamente.

Quella che colpì Rimini nel 1855 fu la peggiore epidemia di colera dell’Ottocento. Ma non l’unica, visto che le pandemie nel mondo furono ben sei durante il corso del secolo.

La prima, nel 1817, scoppiò in India ma sia arrestò alle porte dell’Europa, alle foci del Volga. La seconda invece, nel 1828, dopo l’Asia non solo  devastò tutto il vecchio continente, ma sbarcò anche nelle Americhe, dove si esaurì solo dieci anni dopo.

Nel 1841 fu la volta della terza, terribile infezione, che si protrasse fino al 1856. Aveva già fatto una prima comparsa in Italia nel 1848 al seguito delle truppe austriache del Lombardo-Veneto, ma in quell’occasione la Romagna fu appena sfiorata e Rimini soffrì solo quattro vittime, tutte donne abitanti vicino al porto. Il morbo parve esaurirsi nel 1854, ma un’alluvione dell’Arno ne causò una recrudescenza in Toscana che provocò l’anno dopo una strage da cui non si salvarono neppure i luoghi più remoti, come le vallate alpine, la Sardegna o l’Isola del Giglio. E Rimini, niente affatto isolata, fu investita in pieno. Si calcola che in Italia in 15 anni i morti furono oltre 280 mila.

Don Bosco nell’estate del 1856 radunò 44 giovani per soccorrere gli ammalati, tra cui il suo allievo Domenico Savio. Quest’ultimo, distintosi tra i volontari, contrasse anche lui il colera e morì il 9 marzo 1857, nemmeno un mese prima di compiere 15 anni.

La quarta pandemia durò dal 1864 al 1874 mietendo vite umane da Singapore all’Europa, con quasi 5 mila morti solo a Milano. La quinta, dal 1884 al 1886, raggiunse la Francia provenendo dal Tonchino e poi dilagò in Italia, dove colpì soprattutto Genova, La Spezia, Brescia, Massa, Venezia e Napoli. Poi gli emigranti italiani la portarono in Argentina. Fu proprio allora che Robert Koch riuscì a isolare in Egitto il vibrione colerico. Ciò nonostante, il secolo si chiuse con la sesta epidemia, dal 1892 al 1893, giungendo in Europa dalla Russia passando da Amburgo; raggiunse l’Italia nel 1893 causando un numero limitato di vittime.

Il colera non scomparve neppure con le nuove cure del ‘900. Altre pandemie si ebbero fra il 1902 al 1926, con circa 800 mila morti solo in India. Nel 1947 si ebbe un’epidemia in Egitto. L’ultima pandemia colerica si è verificata attorno al 1990-1991 colpendo Sud-Est asiatico, Africa, Perù.

Tornando al 1855, non solo allora non si conoscevano cure per il colera, ma neppure se ne immaginavano le cause. Per esempio, il medico riminese Michele Rosa sosteneva che esse fossero da ricercarsi fra «la crapula, l’ebbrezza» e l’eccesso di «cose dolci o fatte col mele». Tra i rimedi suggeriti, figura anche un buon bagno caldo. Rosa scriveva a metà ‘700, ma un secolo dopo la scienza medica non aveva fatto alcun passo avanti. Salvo che qualcuno, a Londra, aveva osservato che potevano esservi relazioni fra le acque inquinate dalle fogne e la malattia. Non si conosceva ancora il vibrione, ma la strada era giusta.

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