«MCCCLXXII el die XVII de Luglio, foe di Sabato in ora de vespro, morì el gran Signore el magnifico Malatesta mis. Malatesta Ungaro, et stette infermo XVIII dì, et fu sepulto la domeniga mattina cum grandissimo onore». Così l’anonimo “cronista malatestiano”.
Galeotto de Malatestis, detto Malatesta Ungaro era nato a Rimini nel giugno 1327 dal matrimonio tra Malatesta detto l’Antico (o Guastafamiglia) e Costanza Ondedei, della nobile famiglia presente anche a Pesaro e Saludecio. Battezzato come Galeotto, nel 1347 divenne per tutti Malatesta Ungaro in onore del re d’Ungheria Luigi d’Angiò, che passando da Rimini lo ordinò cavaliere.
Le cronache dell’epoca – e non solo quelle “di regime” dettate dalla famiglia dei Malatesti, ma anche le narrazioni neutrali e perfino dei rivali – dànno dell’Ungaro una descrizione opposta a quella a tinte fosche spettata al padre, che si era ampiamente meritato il soprannome di Guastafamiglia. Il giovane Galeotto è invece prestante, leale, colto, virtuoso e valoroso. Insomma, un gentiluomo “cortese” che incarnava alla perfezione i migliori ideali del tardo medio evo.
L’Ungaro trascorse la giovinezza nel mestiere delle armi sotto la guida del malfamato padre e dell’omonimo zio Galeotto, insieme con il fratello primogenito Pandolfo (II), futuro signore di Pesaro. Partecipò all’ampliamento della potenza malatestiana nella Marca; ma come figlio cadetto, era costretto a dimostrare continuamente il proprio valore. Nel 1349 fu l’artefice della capitolazione di Iesi e il 1353 lo vide in una scomoda posizione: fu infatti consegnato in garanzia, come ostaggio, a una delle più terribili compagnie di ventura del periodo, quella di Fra Moriale, che stava devastando i territori marchigiani.
Nel 1354 Papa Innocenzo VI grazie al legato Egidio de Albornoz, riuscì a riportare i “tiranni” di Romagna e Marche all’obbedienza; l’Ungaro fu catturato e imprigionato a Gubbio. A Malatesta Antico non restò altro da fare che contrattare la pace e cercare di ricavare il massimo dalla situazione: vestiti i panni del figliol prodigo, il Guastafamiglia si presentò di sua spontanea volontà all’Albornoz, che mostrò di gradire il gesto. Il 2 giugno 1355 furono, infatti, stipulati i patti in base ai quali i Malatesta restituivano alla S. Sede i territori illegittimamente occupati ottenendo in cambio la concessione del vicariato decennale (ma rinnovabile) su Rimini, Pesaro, Fossombrone e Fano. Pegno della transazione, il secondogenito Ungaro, di nuovo nel ruolo di ostaggio.
Nel 1356, quando il papa indisse la crociata contro Forlì, i Malatesta ne furono al timone: zio Galeotto fu nominato Gonfaloniere della Chiesa e l’Ungaro incendiò il porto di Cesenatico, impedì al nemico di accedere ai rifornimenti via mare e, condotte scorribande vittoriose nei dintorni di Cesena, si riunì all’esercito dello zio. Congiuntamente diressero i loro sforzi all’assedio di Cesena difesa dall’indomita Cia degli Ubaldini, moglie di Francesco Ordelaffi, la quale, alla fine, cedette e, fatta prigioniera, venne condotta ad Ancona.
La crociata contro Forlì conobbe una momentanea pausa e l’Ungaro ne approfittò per imbarcarsi in un’impresa che gli valse grande risonanza “cortese”: il pellegrinaggio in Irlanda al pozzo, o “Purgatorio di S. Patrizio”, per incontrare l’anima della donna amata: Viola Novella. Sposata a un Caccia Battaglia (Gozio de’ Battagli, omonimo e parente del celebre cardinale), secondo la vox populi il marito l’avrebbe uccisa per la sua relazione con l’Ungaro.
“È l’embrione – commenta il Dizionario Biografico Treccani – della corte umanistica che si sarebbe affermata con la signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesta, ma che ebbe i propri fondatori in Pandolfo (II), cultore delle lettere e intimo amico di Petrarca, e nell’Ungaro, sincero amante delle arti figurative, come dimostra il ciclo di affreschi a soggetto epico e venatorio del pittore Iacopo Avanzi nel castello di Montefiore (1370 circa) da lui direttamente commissionato. Non a caso volle, come compagno di viaggio, Niccolò Beccari, fratello del famoso rimatore Antonio (Antonio da Ferrara), e l’eco del suo tragico amore per Viola Novella risuonò in componimenti letterari e poetici di Gambino d’Arezzo, Benedetto da Cesena, Antonio da Cornazzano e Basinio da Parma”. E qualcuno ha sostenuto che ne parli anche il Petrarca nel III Trionfo d’Amore. La «coppia d’Arimino che ‘nseme/vanno facendo dolorosi pianti», sarebbero Galeotto Ungaro e Viola Novella. Ipotesi smontata dai filologi, il poeta allude Paolo e Francesca. Ma il fatto stesso che sia stata formulata testimonia la risonanza che ebbe il dramma, nonostante non ne se trovi traccia nelle cronache contemporanee, riminesi e non: la stessa congiura del silenzio delle fonti ufficiali che aveva colpito gli sfortunati amanti eternati da Dante.
L’Ungaro viaggiò anche in Terrasanta tra l’aprile e l’agosto 1349 (o 1359, le fonti sono discordi): ancora una volta ad accompagnarlo fu un poeta e uomo di corte, messer Dolcibene de’ Tori.
Ma la guerra divampava di nuovo, questa volta scatenata dal Conte Lando (Konrad Von Laundau) giunto in soccorso di Francesco Ordelaffi, che era giunto a saccheggiare anche il Riminese e il Cesenate. Albornoz pagò allora 50 mila fiorini al mercenario tedesco purchè se ne andasse altrove, costringendo così alla resa il signore di Forlì (4 luglio 1359).
Ora toccava a Bologna. L’Albornoz, chiamati presso di sé il l’Ungaro e Galeotto, riuscì a riconquistare la città, cacciandone il signore Giovanni Visconti di Oleggio e sconfiggendo l’esercito visconteo nella decisiva battaglia di San Ruffillo del giugno 1361.
Grazie anche a questi meriti, nel 1363 papa Urbano V riconfermò i vicariati malatestiani per almeno un decennio; la signoria che Innocenzo voleva estirpare, di fatto si era già ricostituita.
I Malatesta si erano inoltre legati in un’alleanza di ferro con gli Estensi. L’Ungaro sposò in prime e seconde nozze rispettivamente Violante (1345) e Costanza (1362), entrambe figlie di Obizzo III d’Este. A sua volta, nel 1363, Ugo d’Este, figlio del prolifico Obizzo, sposò Costanza Malatesta, unica erede dell’Ungaro (avuta dalla prima moglie Violante) o almeno la sola figlia legittima, dato che la sua discendenza annoverava almeno un maschio naturale, un tale Ludovico.
Nello stesso anno l’Ungaro fu nominato Capitano generale della Chiesa e si dimostrò, ancora una volta, all’altezza della situazione: suo il merito della vittoria ottenuta a Solarolo; la pace che ne derivò con i Visconti consentì di riportare lo strategico castello di Lugo e le relative pertinenze sotto il dominio pontificio. Più volte ambasciatore presso la corte avignonese, l’Ungaro, come Pandolfo e Galeotto, era ormai alfiere irrinunciabile e fidato della Santa Sede.
Nel 1366 l’Ungaro si fece promotore, con Niccolò d’Este, di una lega che riuscisse a cacciare le compagnie di ventura dall’Italia: non tanto per un’ideale nazionalistico a quei tempi inesistente, ma perché lo strapotere dei mercenari, sempre pronti a servire qualsiasi signorotto volesse tentare di ingrandirsi, era il maggior fattore di instabilità della penisola. Urbano V nel 1368 volle l’Ungaro come Gonfaloniere della Chiesa e gli affidò il comando di tutte le milizie, lo creò inoltre comandante supremo delle armi della lega. In pratica, l’Ungaro diveniva l’uomo di fiducia del papa in Italia; da parte sua, Galeotto acquisiva la rettoria di Romagna e il vicariato di Cesena e Bertinoro.
Ma anche l’imperatore Carlo IV si rivolse ai Malatesta quando, nell’agosto 1368, ricevette l’invito a intervenire per sanare la difficile situazione in cui versava Siena, e nominò l’Ungaro vicario della città. A Siena però le cose erano troppo complicate e dopo lunghe lotte alla fine l’Ungaro dovette prendere atto di aver fallito.
Neppure la lega, tesa a contrastare la forza delle compagnie di ventura, aveva conseguito i risultati sperati: i mercenari continuavano a imperversare per l’Italia. Inoltre, Perugia, sia appoggiando le compagnie che ospitando i Montefeltro fuggiaschi, si confermava refrattaria all’obbedienza papale e dava ricetto ai nemici della Chiesa. Fu così che Urbano V indisse una crociata contro la città umbra e le brigate prezzolate, tra le quali spiccava quella di Giovanni Acuto (l’inglese John Hawkwood); si formò una nuova coalizione e al comando delle milizie fu chiamato ancora una volta il Malatesta. Di lui si servì anche il neoeletto papa Gregorio XI, inviandolo con Galeotto nel Modenese a sostegno di Niccolò d’Este, per sedare la rivolta di Manfredino da Sassuolo e di altri signori limitrofi, istigati proprio dai Visconti (febbraio 1371).
Pare un destino, ma nella primavera 1371, pur essendo munito di salvacondotto papale, l’Ungaro fu catturato e tenuto per la terza volta in ostaggio dalle genti del Delfinato, che chiedevano un riscatto per il rilascio. Gregorio XI, appellatosi per la sua liberazione al vescovo di Vienne e al re di Francia Carlo V (17 maggio 1371), riuscì nell’intento.
Tornato a Rimini, l’Ungaro però si ammalò e venne a a morte, all’età di 45 anni. Fu sepolto nella chiesa di S. Francesco, ove aveva già disposto la costruzione di una ricca cappella dedicata a S. Giovanni Battista. Non lasciava discendenti maschi legittimi: il testamento, prodigo di legati pro anima, nominò eredi principali la moglie e la figlia, entrambe di nome Costanza, ed esecutore testamentario Pandolfo, il quale però sopravvisse al fratello solo pochi mesi: morì nel gennaio 1373 a 48 anni. I due erano rimasti leali fra loro per tutta la vita, caso allora davvero raro e non solo fra i Malatesta. Lo Stato malatestiano veniva così riunificato nelle mani dell’ormai vecchio zio Galeotto.
(le immagini sono tratte dal Codex Manesse, manoscritto miniato tedesco della prima metà del XIV secolo)