“Ditto anno et die XV de Maggio cominzioe in Arimino una grandissima mortalità, et poi per lo contado. Et durò fino adì primo decembre; et morì de tre persone le doe. Et prima morì la poveraglia. e poi gli altri grandi; fora che tiranni e signori non morì nessuno. Et questa mortalitade fo generale in ogni paese”. Così l’anonimo cronista “malatestiano” di quell’anno, il 1348. È la Peste Nera che ghermisce anche Rimini.
La peste che sarà detta “del Decamerone” perchè descritta nei suoi effetti a Firenze nel capolavoro di Giovanni Boccaccio, fu una delle peggiori epidemie nella storia dell’umanità.
Si calcola che fra il 1347 e il 1352 in Europa morirono di peste tra i venti e i venticinque milioni di persone, un terzo della popolazione continentale dell’epoca. Ma la somma globale delle vittime fu certamente di gran lunga superiore, anche se difficile da calcolare per mancanza di fonti certe. Perché se sappiamo che il morbo marciò con un tasso di letalità del 60% fino agli angoli più remoti del suolo europeo, arrivando perfino in Groenlandia, nessuna cifra affidabile ci è giunta sul suo iniziale serpeggiare in Asia, come della successiva propagazione in India e, dopo l’Europa, in Egitto, lungo le rive del Mar Rosso e poi fin chissà nel resto dell’Africa, dove secondo le stime moderme uccise un’ottavo della popolazione.
Solo di recente si sono approfondite le vicende della Cina, stimando che durante le epidemie registrate tra il 1331 e il 1353 morì circa il 65% degli abitanti. Secondo Matteo Villani, che a Firenze visse di persona la tragedia, la “questa pestilenzia (…) comprese e uccise infra il termine d’uno anno la terza parte del mondo che si chiama Asia”. Il cronista la dice inziata nel 1346 “nelle parti d’Oriente (…), in verso il Cattai e l’India superiore” e cita “la Rossia” (Russia), “la Soria” (Siria), la Turchia e “l’Erminia” (Armenia) fra le regioni colpite.
Oggi si crede che l’area di origine sia stata in Asia centrale fra Pamir, Altaj e Tuva, forse favorita nel suo divampare dalle terribili condizioni causate dall’ennesima guerra fra Mongoli e Cinesi allora in corso in quella regione. Da lì, per la via della Seta, raggiunge l’odierno Kirghizistan, poi Tabriz in Persia. Nel 1345 si segnalano i primi casi lungo il Volga meridionale e sul rive del Mare d’Azov. Poi tocca ad Astrakhan. Ed ecco la morìa insinuarsi fra i turco-mongoli dell’Orda d’Oro che capeggiata dal Khan dei Tatari Ganī Bek nel 1346 assedia Caffa (oggi Feodosia in russo, ma ancora Kefe per i Tatari di Crimea), ricca colonia genovese. Si dice che gli assedianti gettino con le catapulte i cadaveri degli appestati entro le mura della città. Sia come sia, la peste penetra in Caffa per poi imbarcarsi sulle navi genovesi in fuga dalla Crimea. Una galea approda a Messina, ed è il turno dell’Italia.
Il regno di Napoli è il primo a essere falciato, Roma subito dopo; ma poi pare che l’incubo si affievolisca. Invece riappare più virulento che mai nella stessa Genova e di lì in Piemonte e in Svizzera e nel resto dell’Europa settentrionale. Sempre da Genova o forse diretamente dall’Oriente arriva a Marsiglia ed è il turno della Francia, a Barcellona e anche la Catalogna è servita, ad Almeria per decimare la Spagna, sia quella cristiana che quella musulmana. Solo la Lombardia sembra quasi immune, ma a un certo punto si trova circondata, perché una terza ondata sommerge Venezia e poi dilaga in tutto il Veneto e quindi in Emilia, Romagna, Toscana, Istria e Dalmazia. L’espansione nei Balcani si incontra con quella del focolaio scoppiato a Costantinopoli fin dal 1347.
A Rimini, come scrive Luigi Tonini, sono rimaste tracce materiali di quella strage. «Dico la pietra, infissa oggi nel Chiostro che fu de’ conventuali di San Francesco ora Cattedrale, alta m. 0,45 larga 1,38 la quale in caratteri gotici conserva le seguenti parole:
In nostre lettere dice:
† MCCCXLVIII a Kal. Junii usque ad Kal. Novemb. in Loco Fratrum Minorum de Armino, ut notatus est a fide dignis, sepulta sunt circa viginti quator centenaria hominum defunctorum naturaliter utriusque etatis et sexus, pro quorum animabus factum est hoc opus ad honorem Sancti Antoni Abatis
E cioè all’incirca: “Nell’anno del Signore 1348 dal primo di giugno al primo di novembre nel terreno dei frati minori di Rimini, come è annotato da quelli degni di fede, sono state sepolte circa 24 centinaia di morti per causa naturale di ogni età e sesso, per le cui anime fatta fu questa opera a onore di Sant’Antonio Abate”
Dunque solo lì erano seppelliti 2.400 morti di peste. E solo nel lasso di tempo indicato, più breve rispetto a quello annotato dalla Cronaca Malatestiana.
«Il Clementini – prosegue Tonini – Vol. II p. 49, scrisse che questa pietra fu nel cimitero di Sant’Antonio Abbate “ora chiesa della Confraternita della Croce” ed aggiunge, che “in ricordata memoria della liberazione furono dipinte nel muro di quella chiesa la Vergine Santissima con S. Giorgio e Sant’Antonio Abbate, innanzi ai quali sta a render grazie in ginocchio armato Galeotto fratello di Malatesta, di cui traversano l’armatura tre sbarre con le scacchiere, vera e antica insegna della casa”».
«Questa pittura a buon fresco, coperta poi da intonaco dato alla parete, è tornata alla luce nel 1866 in una camera a pian terreno nel chiostro del detto Convento, la quale camera ultimamente ai Frati servì di cucina ed ora è ad uso di granajo».