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13 febbraio 1498 – Pandolfaccio scampa alla congiura degli Adimari: tremenda vendetta

Il 13 febbraio 1498, tredici corpi pendono impiccati dai merli di Castel Sismondo. Fra loro ci sono due membri del consiglio della signoria. E uno è quello di Adimario Adimari, accusato di essere a capo della congiura che aveva cercato di uccidere il signore di Rimini, Pandolfo IV Malatesta detto Pandolfaccio.

Era successo il 20 gennaio, durante la funzione del vespro nella chiesa di S. Giovanni Evangelista, cioè S. Agostino. Un agguato che sembra ricalcato su quello della “congiura dei Pazzi” a Firenze contro i Medici (1478), finito ugualmente male. All’improvviso durante la Messa, un gruppo di uomini sguaina le armi e assale Pandolfaccio. Appartengono ad alcune delle famiglie più in vista di Rimini: i Marcheselli, che guidano l’assalto, i Belmonti, i Cattani, i Clementini, i Magnani, i della Rosolaria, i Diotallevi, gli Schiavina, gli Agolanti, gli Arnolfi e altri ancora fra cui, appunto, gli Adimari.

adimari

Pandolfaccio però, con il vigore dei suoi 24 anni, balza prima sull’organo e poi sull’altare maggiore, che si rompe sotto il suo peso. Quattro organisti ferraresi, che sono al suo fianco, lo difendono con le spade; grazie al loro intervento il signore viene ferito solo in modo lieve e riesce a riparare in Castel Sismondo.

In città è guerra civile, perché altri nobili, come gli Agli, restano fedeli al Malatesta e anche molti del popolo sono dalla sua parte.

All’improvviso il ponte levatoio sulla piazza del Corso si abbassa. Pandolfo esce in sortita alla testa dei suoi armati. Si riprende la sua città. Fa uccidere Ludovico e Piero Belmonte, fa saccheggiare 15 case ed altre 4 sono date alle fiamme. I prigionieri vengono condotti in Castel Sismondo per essere sommariamente processati, non prima delle ovvie torture per estorcere altri nomi.

Ma la vendetta di Pandolfaccio non si ferma con le impiccagioni del 13 febbraio. Sospetta di tutti e perfino gli organisti che gli hanno salvato la vita vengono scacciati dalla città; uno di costoro, anzi, è trattenuto in carcere con il sospetto di essere stato complice o, quanto meno, consapevole del complotto, che sarà ricordato come “la congiura degli Adimari”. 

Ricostruirne le motivazioni, le fasi e le conseguenze, non è facile, nel groviglio di odi e interessi che quel giorno esplode nel conflitto, peraltro non per la prima volta.

Cesare Clementini, che scrisse poco più di un secolo dopo gli avvenimenti, ne fa risalire le origini addirittura a trent’anni prima, quando dopo la morte di Sigismondo si innesca una serie di delitti più o meno misteriosi, le cui vittime più illustri sono proprio i figli legittimi di Sigismondo e Isotta, Sallustio e Valerio.

Stemma degli Atti, signori di Sassoferrato, sulla porta del castello di Rotondo

Sono omicidi efferati, o suicidi a cui non crede nessuno, quasi sempre presentati con l’etichetta ufficiale della passionalità. E coinvolgono i Malatesta, i loro rami collaterali come gli Almerici, la famiglia degli Atti cui apparteneva Isotta, e i clan che poi compariranno anche fra i congiurati del 1498. Ma in qualche modo c’entrano anche le dinastie imparentate con i signori di Rimini, come gli Aldobrandini di Ravenna e i Bentivoglio di Bologna, da cui provengono rispettivamente la madre e la moglie di Pandolfaccio, e poi i vicini Montefeltro, gli Estensi, Venezia, il Papa.

L’anno prima della congiura in città era scoppiata una sommossa dopo che il Signore aveva tentato, senza riuscirci, di far rapire una ragazza di cui si era invaghito. Questi episodi vanno a formare la “leggenda nera” di Pandolfaccio, che ancora i racconti popolari tramandavano in pieno Novecento. Leggenda, del resto, fino a un certo punto, se si vuole dare ascolto al Clementini. Lo storico afferma di aver visto con i propri occhi nel castello un trabocchetto posto di fronte a un ritratto della Vergine: si spalancava su di un pozzo irto di lame a rasoio con calce viva sul fondo: qui sarebbero finiti desparecidos invisi al Malatesta. Fatto sta che una botola poco rassicurante è tutt’ora visibile in Castel Sismondo.

I tradimenti coniugali, le mogli e le figlie prese a forza, le efferatezze, gli oltraggi e gli stupri certo contano, eccome. Ma senza dubbio in gioco c’è prima di tutto il dominio della città.

Una Rimini cui resta ormai ben poco del dominio malatestiano, che un tempo copriva mezza Romagna e gran parte delle Marche, si attestava nella valle Tevere da Sansepolcro a Citerna, giungeva per qualche tempo addirittura a Bergamo e Brescia. Un anno prima della congiura, nel marzo 1497, il cronista veneziano Marin Sanudo sbrigativamente descriveva così la città: «A Rimano morivano di fame».

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