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1000 giorni per cambiare l’Italia: ne mancano meno di 250

Ce ne sarebbero così tante da scrivere in questo periodo che davvero diventa difficile fare la scelta degli argomenti. Ci ho pensato per tutta la prima decade del mese, però giorno dopo giorno ne succedono di ogni, per cui c’è un grave imbarazzo nel dare le priorità..
Ma il mese di settembre è il mese del rientro, della ripartenza globale…

Bene, nello stesso mese partimmo due anni fa con i 1000 giorni per cambiare l’Italia, Passo dopo Passo (http://passodopopasso.italia.it). Considerando che si tratta di un sito a scadenza, avevamo una prima indicazione: il nostro orizzohttp://archivio.chiamamicitta.it/1000-giorni-cambiare-litalia-ne-mancano-meno-250/nte vira verso il 27 aprile 2017. Questa era la data di scadenza del cambiamento italiano…partendo dal primo settembre 2014. Mancano ancora…249 giorni. Siamo a ¾ del cammino.

Capisco bene che per cambiare radicalmente un paese non bastino alcuni mesi, l’ho sempre pensato. Eppure il tema della scadenza al 27 aprile 2017 non era così facilmente interpretabile allora, e non lo è adesso. Infatti nel periodo estivo di quest’anno non sono state aggiunte attività (almeno dal 28 giugno al 24 agosto, poi purtroppo la catastrofe del terremoto e delle sue conseguenze ha preso il giusto sopravvento sul resto delle tematiche, a parte lo sfacelo della startup amministrativa romana…).
Ne ho scritto due anni fa, dei 1000 giorni. Proprio in partenza.

Staremo pensando che nei 751 giorni passati tanto è cambiato, che Uber ha soppiantato i taxi, Air b’n’b le camere in affitto, purtroppo sono subentrati fenomeni di terrorismo globale, ci sono stati disastri ambientali in continuità con il passato, abbiamo avuto la Brexit, Google e altri hanno lanciato le auto senza pilota, Donald Trump è riuscito a farsi candidare dai repubblicani negli USA, Marchionne pare convertito al marxismo, in Europa ed in Germania stessa la destra xenofoba prende sempre più piede.
Eppure rileggendo lo scritto di allora, sembra che poco sia cambiato, nella sostanza.

Allora scrivevo (cit.):
“Le cause profonde dei nuovi malanni dell’Europa sono tre problemi a noi familiari e tra loro collegati. Primo, c’è penuria di leaders politici con il coraggio e la convinzione di mettere in atto riforme strutturali per migliorare la competitività e stimolare la crescita (questo aspetto è peggiorato nel frattempo). Secondo, la pubblica opinione non è convinta dell’urgente bisogno di cambiamenti profondi e radicali. Terzo, nonostante gli sforzi della BCE, la struttura monetaria e fiscale è debole, inficiando la crescita – rendendo così più difficili le riforme strutturali (e la Brexit non ha certo aiutato in tal senso)“. 

Dopo l’analisi, la conclusione era la seguente: “Senza una nuova spinta dai leaders continentali, la crescita non ci sarà e la deflazione potrebbe tener duro. Il Giappone ha sofferto un decennio di mancata crescita negli anni ’90, e ancora sta lottando. Ma diversamente dal Giappone l’Europa non è uno stato unico. Se la moneta unica porta stagnazione, disoccupazione e deflazione, allora il partito antieuro potrebbe ragionevolmente rafforzarsi. Grazie al lavoro di Draghi sui debiti dei governi, si sono allontanati i rischi di turbolenza sui mercati. Ma il rischio politico che uno o più paesi decida di uscire dalla moneta unica rimane. La crisi dell’euro non è finita, sta aspettando all’orizzonte”.

La crisi dell’Euro, di cui si parla poco, è oggi paradossalmente più forte che in passato, vista anche la Brexit che indebolisce la UE. Ma i tre paesi guida dell’area Euro devono intervenire subito, ed in questo l’azione congiunta del governo italiano e di quello francese può far recedere dallo stallo la grande anomalia europea, che come sostengo da anni è la Germania, la quale per anni è stata trainata dagli altri Paesi e poi si è ritrovata unica trainante. E gli errori più gravi, fortemente sottolineati negli anni scorsi da Wolfgang Munchau, editorialista economico tedesco, sono stati commessi nel recente passato, finché la BCE è stata troppo sotto scacco della Bundesbank.

Come rimediare? Due anni fa suggerivo quanto segue.

  1. Far procedere un percorso di serie riforme strutturali del mercato della distribuzione del denaro (banche verso imprese, fondi vari verso imprese e privati), del mercato del lavoro
  2. Costruire una concertata politica industriale europea e nazionale
  3. Agire dall’altra con il QE, il quantitative easing, ovvero l’acquisto da parte della BCE di buoni e obbligazioni per aumentare la base monetaria (con buona pace di chi sostiene che il denaro in giro abbonda). Questo avrebbe portato presumibilmente con sé una revisione al ribasso del cambio euro-dollaro (come effettivamente avvenuto), con miglioramento della competitività internazionale europea, e quindi benefici evidenti sui mercati internazionali.

Sul terzo punto si è agito, grazie a Draghi, e ancora oggi si parla di un’altra ondata di QE per continuare a stimolare positivamente l’economia. Sul primo punto si è agito localmente, ma in maniera generalmente debole, e poi siamo seri: le riforme sono la cornice, non certo il dipinto della ripresa economica. Il mercato di per sé non basta, tant’è vero che imprese che funzionano bene ce ne sono ovunque, in Italia e all’estero, ma sono i sistema Paese che soprattutto in Europa non reggono. E non pensiamo che la soluzione sia la flottante situazione spagnola, ove è ben presto per dire che la ripresa del PIL rappresenti vera sostanza.

Il problema è il punto sulla politica industriale, sul piano strategico nazionale. Che non c’è e che non è all’ordine del giorno, per errata convinzione del governo. Senza di quello, senza il ruolo dello stato innovatore, senza l’indirizzo prospettico per le PMI (le cui rappresentanze sono esclusivamente baluardi per la difesa traballante dell’esistente), non andremo lontano. E le evidenze della crescita zero (dati Istat di inizio settembre) non sono che la traduzione in crudi numeri di questo.

Lavorare per costruire una visione del futuro è un compito immane ma da attuare subito e con concertazione, in Italia e a livello Europeo dai tre principali paesi (Germania, Francia, Italia).

Ero convinto due anni fa e sono convinto ancor più oggi che non ci sia troppo tempo da aspettare, in particolare per il sistema Italia. Che poi deve metterci del suo, soprattutto puntando sulla creazione di nuovo valore aggiunto per il mercato mondiale. Anche su questo tema la discussione porta spesso a vicoli bui dove si agita l’innovazione e si citano le start up a caso.

http://archivio.chiamamicitta.it/1000-giorni-cambiare-litalia-ne-mancano-meno-250/Noi dobbiamo puntare forte sull’innovazione, ma ribadisco che è necessaria una più forte azione di guida ed orientamento, altrimenti il meccanismo è molto inefficiente.

Prendiamo il caso delle start up innovative italiane. Secondo il ministero dello Sviluppo Economico in Italia sono passate da 2500 a 6235, ma poche superano il milione di fatturato. La statistica ci dice che la media di fatturato dovrebbe essere ottimisticamente attorno ai 200.000 euro. Tutte queste fanno il loro dovere in chiave di creazione di nuovo lavoro, e questo è importante; ma 6235 imprese con un fatturato medio di 200 mila euro arrivano poco oltre al miliardo euro di fatturato. E quindi hanno poca incidenza sul valore aggiunto nazionale.

Ricordiamo che negli ultimi nove anni abbiamo perso circa 150 miliardi di euro di Pil reale, quindi è evidente che lasciare tutto nelle mani delle start up innovative non funziona.

Dobbiamo quindi insistere su promuovere nuove iniziative a più alto potenziale di crescita. Due anni orsono, si parlava dei settori dell’Italian Factor come quelli chiave anche per le start up: design, cibo, beni culturali, turismo, arredo. Questo non basterebbe, come ho sempre dimostrato negli anni scorsi: ma almeno si favorirebbe la nascita di startup tecnologiche al servizio di un nuovo Made in Italy.

La vera chiave è fare diventare il Made in Italy un modo di fare applicabile ad ogni settore d’attività, e non confinato solo all’alimentare e alla moda.

Purtroppo su questo scontiamo un gap culturale anche degli stessi piccoli imprenditori, e soprattutto degli artigiani, che non colgono questo passaggio facilmente. E le organizzazioni che li rappresentano, anch’esse tarantolate dagli startupper che si cambiano la vita, o dalle facili relazioni con gli esercenti di servizi alle persone, paiono totalmente avulse da questo percorso.
Per questo serve più che mai una visione d’insieme, a livello nazionale.

Scrivevo allora, settembre 2014:
“Ecco: di una nuova sistematicità di visione, magari ulteriormente articolata e metodologicamente strutturata, abbiamo bisogno subito. E mi raccomando, senza far l’errore di pensare che la raffigurazione costruita sul passato possa indicarci qualcosa per il futuro. Ho sentito Padoan intervistato in tv rispondere alla domanda “come mai non si era prevista questa ulteriore fase critica dell’economia” con queste parole: “i modelli di previsione economica non sono ancora stati aggiornati”! Ma se già negli anni ’70 Solow ammoniva che per fare modelli che funzionino ci vuole un’economia monoprodotto e monomercato con reddito equamente distribuito! Se mai avessero funzionato, perché non avrebbero previsto almeno qualcosa di quanto accaduto dal 2007-2008 ad oggi, magari ammonendo i soggetti “sensibili”?
Non ci servono modelli, ci servono creatività, capacità analitica e buon senso, senza “sentire voci” ma ascoltando direttamente i cittadini e sapendo quando parlare, quando tacere e soprattutto quando agire.
Perché tutti, in Italia ed in Europa, ne abbiamo bisogno urgente.”

http://archivio.chiamamicitta.it/1000-giorni-cambiare-litalia-ne-mancano-meno-250/Settembre 2016 chiama settembre 2014. Due anni sono passati, gli stessi temi sono all’ordine del giorno, forse ancora più acuti di allora. E mancano solo 249 giorni al 27 aprile prossimo.

Maurizio Morini 

Consulente e Docente in Economia e Management

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