Dove andava l’imperatore e perchè si portava dietro quegli “animalia monstruosa”? Federico di Svevia giungeva da Viterbo ed era diretto a Ravenna. Vi aveva convocato una Dieta per cercare di rinserrare le fila dei suoi Ghibellini e magari portare dalla sua parte quache Guelfo. E Rimini era fra le città ghibelline su cui poteva contare. “Fedelissima”, viene detta nel documento con cui lo Svevo anche quell’anno rassicurava i riminesi: mai la città sarebbe stata data in feudo a qualcuno, bensì sarebbe rimasta libera di reggersi con il suo Comune. Il quale Comune di Rimini, confermava l’imperatore, aveva il giusto diritto di dominare il territorio circostante, cioè il “Barigellato” e tutti castelli dei tre “Baiuli”.
L’imperatore a 35 anni era comunque avviato verso il culmine della sua gloria. Scomunicato per non aver compiuto la crociata promessa al papa, nel 1228 partito infine in Terrasanta, era riuscito a riprendere Gerusalemme non con la guerra ma grazie a un accordo diplomatico con il sultano ayyubide al-Malik al-Kamil, nipote di Saladino. L’anno dopo si era fatto incoronare Re di Gerusalemme nella basilica del Santo Sepolcro. Nel 1230 si era riconciliato con papa Gregorio IX non prima dell’ennesima guerra contro le città ribelli, aizzate dal pontefice. Nel settembre di quel 1231 aveva emanato il Liber Augustalis – le Costituzioni di Melfi – dove disegnava uno stato rigidamente centralizzato limitando le prerogative di feudatari, ecclesiastici e Comuni.
E nello stesso anno aveva preso a battere moneta d’oro, l’Augustale, coniata dalle zecche di Messina e di Brindisi, unica valuta aurea in Occidente. Ma come si vide a Ravenna, nel momento stesso in cui intendeva affermare il suo potere, era costretto a colmare di privilegi i fedeli Comuni ghibellini – come Rimini – mentre nulla poteva contro quelli guelfi che non riconoscevano la sua autorità. E non c’erano solo Bologna e Faenza, ma le città della Lega Lombarda, nonchè parti della Tuscia, il Ducato di Spoleto e la Marca d’Ancona che il papa rivendicava come cose sue.
Non basta. Diritti e privilegi dovevano essere distribuiti anche in Germania, dove pure l’autorità imperiale era costantemente rimessa in discussione. E un atto fondamentale per la storia tedesca era stato emanato proprio nell’Arengo di Rimini. Si tratta della Bolla d’Oro con la quale Federico riconobbe all’Ordine dei Cavalieri Teutonici la sovranità sulla Terra di Chełmno (Culmland, Culmerland o in tedesco Kulmerland), una regione della Polonia centrale ad est del fiume Vistola, e su tutte le terre che i membri dell’Ordine fossero riusciti a conquistare ai Prussiani, ancora pagani. La bolla reca la data del marzo 1226, ma oggi si tende a spostarla al 1235. Evento ricordato dalla lapide che si vede sotto il portico del palazzo comunale riminese.
Quanto a San Martino in XX, Federico, ipotizza Anna Falcioni, passò di lì seguendo uno degli percorsi lungo i crinali delle colline, allora preferiti a quelli del fondo valle. Con il suo pittoresco corteo aveva probabilmente disceso l’Iter Arretinum lungo la Val Marecchia. La chiesa parrocchiale esisteva almeno dal 1040, dipendente dalla Pieve di San Lorenzo a Monte. Faceva parte di un castello e una villa (“Castrum et villa Sancti Martini in Viginti”). Quel “XX” è probabilmente il residuo del nome “numerario” romano di un fondo agricolo, come se ne hanno altri esempi anche nel riminese. E reperti romani sono più volte riaffiorati nella zona; due elementi di stele probabilmente funerarie sono ancora conservate presso la chiesa.
Scrive Anna Falcioni: “In piena epoca comunale, il castrum di S. Martino in XX appartiene al comitatus di Rimini e sorge sul poggio dove ora si trova la chiesa, ma non ne rimane alcuna traccia; l’area castrense è ricoperta da una selva di farnie a cui si affiancano esigui spazi coltivati”.