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10 novembre 1231 – E venne a Rimini l’Imperatore con elefanti, cammelli e mirabili animali

Non si sa il giorno, ma fu di novembre. L’anno, il 1231. Sarebbe stato ricordato come quello di uno spettacolo mai visto. Tanto indimenticabile da essere scolpito sulla pietra.
Una pietra della chiesa di San Martino in XX, che rischiava di andare perduta. Salvata dal parroco don Lazzaro Raschi nel 1973-74. Si demoliva allora il circolo ACLI, costruito nel dopoguerra anche con le macerie della chiesa. Fra esse, il sacerdote riconobbe l’iscrizione. Prima della guerra stava sotto l’altare maggiore perchè veniva ritenuta una pietra sacra.

L’epigrafe di San Martino in XX a Rimini

E invece l’epigrafe raccontava tutt’altro: “Nell’anno del Signore 1231, sotto il papato di Gregorio e l’impero di Federico, nella quarta indizione, al tempo in cui l’imperatore Federico venne a Rimini e condusse con sé elefanti, cammelli e altri mirabili animali, quest’opera fu fatta e completata…”.
La vicenda dell’epigrafe “federiciana” di S. Martino in XX fu ricostruita da Anna Falcioni in “Federico II di Svevia e l’Epigrafe di San Martino in XX di Rimini”, (Rimini, Ghigi 1997). Che sottolinea: “Il passaggio del 1231 di Federico II attraverso il territorio riminese, così come traspare dall’epgrafe di S. Martino in XX, non è citato né dalla storiografia locale, né dalle fonti documentarie e cronachistiche coeve”.
Non era la prima volta che Federico di Svevia veniva a Rimini, né sarebbe stata l’ultima. Il suo arrivo nel 1231, così irrilevante dal punto di vista politico da non essere nemmeno ricordato nelle cronache cittadine, restò tuttavia nella memoria popolare fino a volerlo eternare nella pietra, tanta fu la meraviglia suscitata.

L’iscrizione di S. Martino in XX e la sua lettura proposta dal prof. Augusto Campana nel 1985

Dove andava l’imperatore e perchè si portava dietro quegli “animalia monstruosa”? Federico di Svevia giungeva da Viterbo ed era diretto a Ravenna. Vi aveva convocato una Dieta per cercare di rinserrare le fila dei suoi Ghibellini e magari portare dalla sua parte quache Guelfo. E Rimini era fra le città ghibelline su cui poteva contare. “Fedelissima”, viene detta nel documento con cui lo Svevo anche quell’anno rassicurava i riminesi: mai la città sarebbe stata data in feudo a qualcuno, bensì sarebbe rimasta libera di reggersi con il suo Comune. Il quale Comune di Rimini, confermava l’imperatore, aveva il giusto diritto di dominare il territorio circostante, cioè il “Barigellato” e tutti castelli dei tre “Baiuli”.

Fedele all’imperatore era quasi tutta la Romagna: Rimini, Ravenna, Forlì, Cesena, Imola e Bertinoro. Mancava però Faenza, sostenuta dalla potenza guelfa di Bologna. E tutta l’azione di Federico in quel momento era rivolta a contrastarla, per la verità con scarso successo. Come del resto la Dieta di Ravenna, partita male – convocata il 1° novembre, non fu possibile iniziarla prima di Natale – e conclusa con un nulla di fatto.

Federico II di Svevia, “Stupor mundi”

L’imperatore a 35 anni era comunque avviato verso il culmine della sua gloria. Scomunicato per non aver compiuto la crociata promessa al papa, nel 1228 partito infine in Terrasanta, era riuscito a riprendere Gerusalemme non con la guerra ma grazie a un accordo diplomatico con il sultano ayyubide al-Malik al-Kamil, nipote di Saladino. L’anno dopo si era fatto incoronare Re di Gerusalemme nella basilica del Santo Sepolcro. Nel 1230 si era riconciliato con papa Gregorio IX non prima dell’ennesima guerra contro le città ribelli, aizzate dal pontefice. Nel settembre di quel 1231 aveva emanato il Liber Augustalis  – le Costituzioni di Melfi – dove disegnava uno stato rigidamente centralizzato limitando le prerogative di feudatari, ecclesiastici e Comuni.

L’Augustale di Federico II

E nello stesso anno aveva preso a battere moneta d’oro, l’Augustale, coniata dalle zecche di Messina e di Brindisi, unica valuta aurea in Occidente. Ma come si vide a Ravenna, nel momento stesso in cui intendeva affermare il suo potere, era costretto a colmare di privilegi i fedeli Comuni ghibellini – come Rimini – mentre nulla poteva contro quelli guelfi che non riconoscevano la sua autorità. E non c’erano solo Bologna e Faenza, ma le città della Lega Lombarda, nonchè parti della Tuscia, il Ducato di Spoleto e la Marca d’Ancona che il papa rivendicava come cose sue.

Federico II incontra il sultano al-Kamil

 

Non basta. Diritti e privilegi dovevano essere distribuiti anche in Germania, dove pure l’autorità imperiale era costantemente rimessa in discussione. E un atto fondamentale per la storia tedesca era stato emanato proprio nell’Arengo di Rimini. Si tratta della Bolla d’Oro con la quale Federico riconobbe all’Ordine dei Cavalieri Teutonici la sovranità sulla Terra di Chełmno (Culmland, Culmerland o in tedesco Kulmerland), una regione della Polonia centrale ad est del fiume Vistola, e su tutte le terre che i membri dell’Ordine fossero riusciti a conquistare ai Prussiani, ancora pagani. La bolla reca la data del marzo 1226, ma oggi si tende a spostarla al 1235. Evento ricordato dalla lapide che si vede sotto il portico del palazzo comunale riminese.

E gli animali esotici? Non per nulla Federico II era detto dai contemporanei “Stupor mundi”, lo stupore del mondo. Inarrivabili lo sfarzo, il livello culturale, le pretese di prestigio della sua corte, apertamente ispirata all’antichità classica. Come già i re Normanni di Sicilia, come i sovrani orientali, ma soprattutto come gli imperatori romani a partire da Augusto, modello supremo, l’esibizione di meraviglie della natura era parte obbligata della “politica d’immagine”, come si direbbe oggi. Con quali duraturi effetti, proprio la stele riminese può attestarlo.
La strabiliante parata dell’Imperatore è annotata da Mainardino Imolese, fiero ghibellino che della sua città fu sia vescovo che podestà, presente alla Dieta di Ravenna fra il 1231 e 1232. Mainardino scrive di aver visto l’imperatore condurre seco “molti animali insueti in Italia: elephanti, dromedarii, cameli, panthere, gerfalchi, leoni, leopardi e falconi bianchi e alochi barbati”.
Il ricordo di quegli animali da favola durò secoli. L’umanista forlivese Flavio Biondo, che visse anche presso la corte malatestiana di Rimini nel ‘400, riprende l’imolese quasi alla lettera, ma con una maliziosa aggiunta: “Mentre che era Federigo in Vittoria, gli uennero ambasciatori di Aphrica, di Asia, e de lo Egitto; e portarongli a donare Elephanti, Pantere, Dromedarij, Pardi, Orsi bianchi, Leoni, Linci, e Gofi barbati: egli si edificò qui Federigo bellissimi giardini, e serragli; dove teneua bellissime fanciulle; e lascivi garzoni.” 
Oltre a un “vivarium” presso Foggia, il serraglio di Federico comprendeva infatti leopardi, leoni, pantere, cammelli, falchi. E un elefante di cui è narrata nelle cronache dell’epoca quasi l’intera esistenza, nonchè ritratto nelle miniature. Era stato proprio il sultano Al-Kamil a inviarglielo in regalo nel 1228. Morte e sepoltura del pachiderma a Cremona nel gennaio 1248 furono registrate dgli Annali Placentini Gibellini; l’avorio delle sue ossa divenne materia prima per oggetti preziosi.

Federico II sbaraglia la Lega Lombarda a Cortenuova ed entra a Cremona con il Carroccio conquistato

Inoltre, come scrive Alessandro De Troia (Stupormundi.it),  “La Cronaca di Salimbene de Adam racconta due episodi sull’animale. Il primo, nel 1235, quando Federico ‘mandò un elefante in Lombardia, con molti dromedari e cammelli e con molti leopardi e con molti girifalchi e astori. E passarono da Parma, come vidi coi miei occhi’. Il secondo descrive la presenza dell’elefante a Cremona nel Settembre 1236. Salimbene annota inoltre una costruzione in legno in cui vi erano guerrieri saraceni con stendardi e stemmi sulla schiena dell’elefante. Pier delle Vigne menziona in due lettere l’animale sostenendo che dopo la Battaglia di Cortenuova (dove la Lega Lombarda fu distrutta, ndr) Federico II decise di far sfilare l’elefante per le strade di Cremona trainando il carroccio, con la solita struttura in legno sulla schiena, trascinando inoltre il podestà di Milano, Pietro Tiepolo, figlio del doge di Venezia che vi era incatenato. Della struttura portata in groppa dall’elefante esiste persino un’iconografia, eseguita da Matthew Paris nella sua Chronica Majora, in cui si vedono suonatori di tromba e di altri strumenti all’interno di un parallelepipedo di legno e un uomo intento alla ‘guida’ dell’animale cavalcandolo dal collo. Il miniatore si riferisce al racconto datogli da Riccardo di Cornovaglia che era in Italia ospite di Federico II”.

La chiesa di S. Martino in XX

Quanto a San Martino in XX, Federico, ipotizza Anna Falcioni, passò di lì seguendo uno degli percorsi lungo i crinali delle colline, allora preferiti a quelli del fondo valle. Con il suo pittoresco corteo aveva probabilmente disceso l’Iter Arretinum lungo la Val Marecchia. La chiesa parrocchiale esisteva almeno dal 1040, dipendente dalla Pieve di San Lorenzo a Monte. Faceva parte di un castello e una villa (“Castrum et villa Sancti Martini in Viginti”). Quel “XX” è probabilmente il residuo del nome “numerario” romano di un fondo agricolo, come se ne hanno altri esempi anche nel riminese. E reperti romani sono più volte riaffiorati nella zona; due elementi di stele probabilmente funerarie sono ancora conservate presso la chiesa.

Stele romane a S. Martino in XX (Foto di Anna Falcioni)

Scrive Anna Falcioni: “In piena epoca comunale, il castrum di S. Martino in XX appartiene al comitatus di Rimini e sorge sul poggio dove ora si trova la chiesa, ma non ne rimane alcuna traccia; l’area castrense è ricoperta da una selva di farnie a cui si affiancano esigui spazi coltivati”. 

E ancora: “La villa di S. Martino in XX, insieme alle tombe (fattorie fortificate, ndr) di Spadarolo, Cella Nera, S. Ermete, Villa Verucchio, Vergiano, S. Fortunato, Cignano, S. Aquilina, Mulazzano, S. Patrignano e la villa di S. Lorenzo in Monte, costituisce un punto della conoide demografuca che irradia da Verucchio, ma è anche un caposaldo dello sfruttamento territoriale e del presidio militare della grande via di comunucazione dall’Adriatico all’area transappenninica”.
(Nell’immagine in apertura, l’elefante di Federico descritto da Riccardo di Cornovaglia e miniato nella Chronica Majora di Matthew Paris)

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