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10 maggio 1805 – Il porto di Rimini va a gonfie vele

Il 10 maggio 1805 vengono pubblicate la «Memorie relative al Porto, alle manifatture ed Arti di Rimini», un documento voluto dal Regno d’Italia appena proclamato da Napoleone (17 marzo 1805) e che oggi si rivela una fonte di precise e preziose informazioni.

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Dunque nel 1805, secondo questo testo ufficiale e come riporta anche Antonio Montanari (“Marineria e società riminese tra 1700 e 1800”. Saggio presentato al convegno su Giuseppe Giulietti, Rimini, 21 giugno 2003, in “Il Rimino”) nel porto di Rimini sono attive oltre cento imbarcazioni con 780 marinai: settanta sono da pesca con 480 marinai, e trentaquattro da traffico con 300 addetti.

“Disegno dello stato presente del canale” di Pietro Bernasconi, metà sec. XVIII, Archivio storico comunale Ravenna. Il disegno evidenzia il progetto di ripristino delle palizzate del porto canale di Rimini dopo l’ennesima piena del Marecchia. Lo “spaccato per il traverso del fiume” raffigura le tecniche costruttive dei moli, le aree maggiormente interessate dallo straripamento del fiume, mentre un bastimento con due vele latine “in croce” sottolinea la scarsa profondità d’acqua del porto canale

“Disegno dello stato presente del canale” di Pietro Bernasconi, metà sec. XVIII, Archivio storico comunale Ravenna. Il disegno evidenzia il progetto di ripristino delle palizzate del porto canale di Rimini dopo l’ennesima piena del Marecchia. Lo “spaccato per il traverso del fiume” raffigura le tecniche costruttive dei moli, le aree maggiormente interessate dallo straripamento del fiume, mentre un bastimento con due vele latine “in croce” sottolinea la scarsa profondità d’acqua del porto canale

Il porto significa anche un robusto indotto. C’è un cantiere navale, anche se senza loggiato, dove quindi non è possibile lavorare nei mesi invernali. Poi esistono fabbriche di cordami che sfruttano l’abbondante produzione di canapa delle campagne. Deve arrivare via mare invece la cotonina che serve per la fabbricazione delle vele: un lavoro che impegna ben 300 donne per tutto l’anno.  Sono poi censite «buone fabbriche di concia di pelle, di vetri e cristalli a uso di Venezia, di ombrelle di tela cerata, di cappelli fini a uso di Germania», ed «un considerevole lavoro di seta greggia» che grazie allo scalo possono anche essere esportate vantaggiosamente. Si fanno poi «paste di frumento a uso di Genova» ed il fondamentale «Biscotto pei Marinai».

Un trabaccolo in costruzione, fine '800

Un trabaccolo in costruzione, fine ‘800

Il «Biscotto», o «galletta», è il duro pane tostato che da tempo immemorabile rappresenta il pasto base del marinaio. «Bis-cotto» perché cotto due volte così da non ammuffire e in grado di mantenersi commestibile anche per un anno; esiste anche un “Biscotto dell’Annona” ma va bene per la gente di terra, visto che non resiste oltre i 10, 12 giorni. Il biscotto veniva poi ammorbidito in brodi, zuppe, vino, olio oppure, in mancanza di meglio, sola acqua.

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Veduta della città di Rimini, ms. Barb. Lat. 10700, Biblioteca Apostolica Vaticana

La pesca è un grande affare, anche se ad arricchirsi davvero non sono i marinai e nemmeno i “paroni” o gli armatori, ma i mercanti all’ingrosso. Da quando, con il Concilio di Trento del 1563, il venerdì di magro è divenuto tassativo per i cattolici, quell’alimento prima guardato con sospetto diventa imprescindibile. Grazie alle “conserve”, cioè le ghiacciaie disseminate ovunque, si può conservarlo fresco per qualche giorno e anche trasportarlo lontano dal mare, con guadagni ovviamente lucrosi. Corrieri rapidissimi, con carri appositamente attrezzati, partono da Rimini in direzione della Toscana, dell’Emilia, della Lombardia e giungono perfino a Roma. Anche perché il pesce dell’Adriatico, si sa, è della migliore qualità ed è ricercatissimo: il Granduca di Toscana alla sua mensa ammette esclusivamente sogliole riminesi.

Per il porto di Rimini quello è un ottimo periodo. Nonostante la guerra navale in Adriatico sia pressochè endemica e il blocco navale inglese implacabile, in un anno vi «entrano più di 400 bastimenti carichi di varie mercanzie e generi, e ne partono altri quattrocento carichi di effetti del Paese e dell’Estero». Per questa sua situazione, si sottolinea, Rimini meriterebbe di ottenere il «Porto Franco», cioè la libera circolazione di merci senza i pesanti dazi locali.

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Il Ponte di Tiberio ancora col “Torrione di Galeotto”, cioè porta San Giuliano, con una delle barriere del dazio

Il riconoscimento però non arriva e dopo pochi anni il boom sembra essersi arrestato. Nel 1824 «la fabbricazione delle vele di canapa e cotone risulta quasi totalmente abbandonata»: vi provvedono con lavoro a domicilio ormai solo circa 70 donne per quelle di canapa; e 30 per quelle di cotone. Eppure – e nonostante i problemi di sempre: insabbiamento, pericolosità, bassi fondali, spazi angusti – ancora nel 1839 da Forlì scrivono a Roma che nel nostro porto ci sono complessivamente 140 legni da commercio e da pesca con una popolazione di circa quattromila anime. Rimini «è il primo Porto dello Stato per Bastimenti, e per Gente di Mare», pertanto in quel momento sopravanza l’antica repubblica marinara di Ancona, nonché gli altri scali pontifici di Civitavecchia e Anzio.

“Pianta dimostrativa della Città di Rimini allo sbocco del Fiume Marecchia nel Mare Adriatico”; Veduta del Porto di Rimini di Francesco Mazzuoli,1788

“Pianta dimostrativa della Città di Rimini allo sbocco del Fiume Marecchia nel Mare Adriatico”; Veduta del Porto di Rimini di Francesco Mazzuoli, 1788

Tre anni dopo la proclamazione del Regno d’Italia, nel 1864, quando già la crisi del porto è diventata gravissima (di lì a poco sarà declassificato e passerà sotto la giurisdizione di Ravenna), Luigi Tonini censisce 5.284 riminesi «portolotti», cioè pescatori, naviganti, calafati, commercianti, industrianti ed i componenti i loro nuclei famigliari. Sono poco meno di un terzo della popolazione urbana complessiva (rioni di città e borghi), «che nel 1862 ascendeva a 16.874 anime».

I pescatori risultano 419, i naviganti 458. I pescatori e le loro famiglie sono soltanto mille persone, un terzo di quanto erano sul finire del secolo precedente. I naviganti e famiglie arrivano a 1.823 unità. I «portolotti» abitano prevalentemente, ma non soltanto, nei Borghi Marina e San Giuliano, e anche in zone lontane dal mare.

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Il Golfo di Venezia – Carta di V.M. Coronelli, 1690-97

Questo buon terzo di Riminesi rappresenta una comunità a se stante, quasi una città nella città. Non parlano neppure il dialetto della restante popolazione, ma, appunto, il “portolotto”: la lingua franca dell’Adriatico che si ritrova in tutti gli scali delle sue due sponde, fino alle Bocche di Cattaro su quella orientale e al Tronto su quella occidentale. È un miscuglio di parlate prevalentemente venete e dalmate (ma non senza tracce slave, albanesi, greche e turche), praticamente estinto negli anni ’30 nel Novecento.

Simili “lingue franche” sono esistite in tutto il Mediterraneo: in ogni città portuale si verificava la stessa separazione linguistica – e non solo – fra il popolo di mare e quello di terra, mentre chi scendeva da un bastimento poteva sentire lo stesso idioma su ogni molo anche se lontanissimo da quello della sua città. Da noi restano vestigia del portolotto soprattutto nei nomi dei pesci e dei frutti di mare,  che si ritrovano pressoché identici a Venezia e Trieste, Ancona e Zara, Porto San Giorgio e Ragusa. Sono poi in comune, ovviamente, la terminologia marinaresca e anche, con lievi varianti, le tipologie di imbarcazioni, comprese le vele sgargianti di colori.

Barchèt in navigazione

Barchèt in navigazione

Del resto, moltissime famiglie marinare di Rimini sono originarie di Chioggia, a seguito di ripetute e massicce ondate migratorie. “Non è sola la marinareccia che da Chiozza va venendo qua. Vengono ancora degli artefici che introducono le arti. Oltre li fabbricatori di barche e li fabbri per li ferramenti delle stesse barche, da Murano è venuto qua chi fabbrica li fiaschi e altri vetri, da Venezia chi fabbrica li cappelli neri e da Venezia pure furono portati qua li telari per la fabbrica delle calzette di seta”: da cui si comprende anche l’origine di alcune di quelle “fabbriche” citate nella relazione. Non per nulla esiste ancora Via Clodia (il nome latino di Chioggia) e l’intero Rione che comprende Borgo Marina si chiama Clodio.

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La festa dei Portolotti di Rimini è il Somarlungo, il lunedì di Pasqua, con il carnevalesco pellegrinaggio fino al santuario più venerato dai marinai riminesi, quello della Madonna delle Grazie: lo si vede anche dal mare aperto, verso di esso ci si rivolge per invocare soccorso, lì si custodiscono gli ex voto di ringraziamento per i pericoli scampati e la stessa chiesa ha il soffitto a carena di nave.  Fra l’altro, l’immagine miracolosa che ha dato origine al Santuario si trova da molti secoli nella chiesa di San Marziale a Venezia, dove è venerata come la “Madonna di Rimini”.

Il soffitto ligneo del Santuario della Madonna delle Grazie

Il soffitto ligneo del Santuario della Madonna delle Grazie

Come vive questa gente? Sebbene siano quasi sempre citati come i “poveri marinari”, a terra se la passano anche peggio: nel 1801 il medico Michele Rosa illustra il modo di rendere commestibile la ghianda, ed un panettiere lo mette subito in pratica ottenendo un’entusiastica approvazione da parte della Municipalità.

Ma ogni marinaio avrebbe replicato con il vecchio adagio: “chi sta in mare naviga, chi sta in terra giudica”. Col mare non si scherza, mai. Per esempio nel 1817, l’11 aprile, per «improvvisa, e gagliardissima burrasca», affondano quattro «baragozzi da pesca», e perdono la vita venticinque «individui di mare». Ventitré famiglie restano «nella massima desolazione e miseria».

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Il porto di Rimini da A. Schweiger-Lerchenfeld, L’Adriatico e il suo litorale, Milano 1883

Ma non si scherza nemmeno con i marinai. Quando la misura è colma, di solito si presentano sulla piazza del Comune e con le buone o le cattive ottengono quello che chiedono. Come il 30 maggio 1799, quando capeggiati dal paron Giuseppe Federici insorgono contro i Francesi e li scacciano. Oppure come nel 1816, quando dopo un aumento del prezzo del frumento «villani e marinai, ai quali ultimi dalla stagione burrascosa e imperversante era impedito il rimettersi in mare» si riversano in città animati dalle peggiori intenzioni. Per spiegarsi meglio, i «sediziosi del porto» si sono portati anche un cannone levato da una loro barca e lo puntano da sotto la statua di Paolo V «contro la scala del palazzo consolare». Una trattativa e la promessa di diminuire il prezzo del grano, fanno rientrare i marinai nel porto, assieme alla loro bocca da fuoco, mentre il vescovo li benedice da palazzo Garampi.

Pescatore riminese di inizio '900

Pescatore riminese di inizio ‘900

Immagini didascalie e numerose citazioni sono tratte da “Rimini marinara: Istituzioni, società, tradizione navale. Secoli XIII-XVIII” di Maria Lucia De Nicolò – La Pieve Poligrafica Editore, 2008

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