Domani, a trent’anni dall’uscita del film, verrà proiettato Intervista di Federico Fellini alla Corte degli Agostiniani. Chiamamicittà ha intervistato lo scrittore e regista Gianfranco Angelucci, amico e collaboratore del Maestro, che ha contribuito alla sceneggiatura della pellicola.
Gianfranco, come è nata, in Fellini, l’idea di usare l’intervista come strumento narrativo per raccontare il suo cinema? Consacrandola di fatto a vero e proprio topos cinematografico, dopo che era stata usata anche, ad esempio, da Pasolini ne La Ricotta, con Orson Welles.
“Due anni prima Federico aveva realizzato Ginger e Fred, che era un po’ il suo congedo dal mondo cinematografico, mettendo in scena due anziani guitti dell’avanspettacolo, che venivano richiamati da una televisione privata per interpretare il loro numero di tip tap, in un programma di vecchie glorie: lì c’era l’attacco frontale di Fellini alla televisione che irrompeva nell’immaginario degli italiani, devastando tutto quello che il cinema aveva creato come Settima Arte. Il film successivo, Intervista, in realtà doveva chiamarsi Un regista a Cinecittà: Federico mi aveva chiesto di preparargli un soggetto su Cinecittà perché voleva raccontare il cinema dall’interno, “in diretta” come diceva lui. Questo testo era finito in una pubblicazione di Rizzoli, intitolato appunto Un regista a Cinecittà. Successivamente, lavorando da quel soggetto alla sceneggiatura del film, Federico aveva trovato il modo di parlare anche delle sue origini, raccontando il suo primo arrivo a Cinecittà: un ragazzo timido e goffo, folgorato da questo mondo di carta pesta così affascinante, che lo conquisterà per sempre. Era la sua elegia. Erano anni in cui Federico cominciava a mettere delle bandierine, dei punti fermi nella sua carriera. Poi però decise, in corso d’opera, di cambiare il titolo in Intervista, facendo una capriola come suo solito: immaginando che una troupe televisiva di giapponesi, così lontana culturalmente, si recasse a Cinecittà per interrogarlo, per riuscire a capire quale fosse la sua genialità, svolgendo un’inchiesta – ma l’inchiesta era evidentemente la sua, di Fellini”.
A proposito di bandierine, nel film Mastroianni e Anita Ekberg rivivono i momenti più belli de La Dolce Vita, provocando inevitabilmente – nello spettatore – un sentimento di grande nostalgia. Con questa scelta Fellini ci ha voluto mostrare come solo l’arte possa vincere lo scorrere inesorabile del tempo, consacrando quelle immagini all’eternità. Nei suoi ultimi anni di vita ne era ancora convinto, o a volte si faceva prendere la mano anche lui dalla nostalgia?
“Non so se fosse nostalgia. Era uno sguardo molto fermo, nitido. Certo, l’effetto che provoca nello spettatore è nostalgico, perché i due attori erano due divi meravigliosi e bellissimi al tempo de La Dolce Vita – stiamo parlando del 1960, 27 anni prima – che ora si ritrovano, invece, imbolsiti e invecchiati, in una nuova stagione della loro vita. E non possono che fare i conti con quelle immagini che, come dici tu, sono diventate mitologiche. Il problema evidenziato era proprio questo: Mastroianni, vestito da Mandrake, è ormai ridotto a un testimonial della pubblicità, i miti dell’infanzia vengono infranti e svenduti alle nuove logiche commerciali e televisive; il momento del grande spettacolo cinematografico, quella nuvola fascinatoria che aveva completamente avvolto l’umanità degli anni ’60, era andata ormai dissipandosi dentro una nebbia che non era più riconoscibile”.
Secondo Fellini la tv ha cresciuto un pubblico impaziente e distratto, insensibile a tutto ciò che non abbia un qualche aggancio sensazionalistico. La rivoluzione digitale, oggi, ha portato alle estreme conseguenze questo fenomeno. Quale era, per Fellini, il problema più grande di questa trasformazione?
“Fellini era impressionato soprattutto da una cosa: il problema del testo. Leggere un libro è questione di sintassi, come anche vedere un film: una costruzione molto particolare che richiede mesi e mesi di lavoro, a volte anni. C’è un linguaggio, una grammatica, uno svolgimento, uno stile. Se tu dissipi tutto questo, stai sostenendo che le immagini, di per se stesse metaforiche, non hanno bisogno di una composizione, dell’intervento consapevole di un artigiano. Possono significare tutto ciò che lo spettatore riceve, sia pure in maniera confusa. Si salta il testo – come nell’arte concettuale, nelle istallazioni. Non è detto che questi nuovi linguaggi non siano a loro volta capaci di reinterpretare la realtà in nuovo con/testo, ma in questo periodo di passaggio il problema c’è e rimane, è innegabile. Federico faceva un discorso artigianale: nelle ultime settimane della sua vita mi disse questa frase illuminante, rivelatoria: “stiamo costruendo lampadari per case senza soffitti”. Aveva intuito che non era il cinema che stava venendo meno, ma tutta la cultura che gli era attorno. La sua era stata chiaroveggenza, aveva visto in maniera perfetta come la società stesse rinnegando tutto ciò che aveva creato in precedenza. Quando parliamo del digitale non parliamo solo di tecnologia – la tecnica non può che aiutare l’espressione artistica – ma di una vera e propria rivoluzione percettiva, come hai giustamente detto”.
L’agguato finale degli indiani che, antenne alla mano, attaccano la troupe del film è l’emblema dell’ingerenza della televisione sul cinema. Oggi, a distanza di trent’anni, è la stessa televisione ad essere in pericolo: cosa avrebbe suggerito Fellini per salvare ciò che resta di buono? Si può fare una televisione felliniana? The young pope di Paolo Sorrentino potrebbe esserne un esempio? Cosa lega, secondo lei, il nostro ultimo premio Oscar a Fellini?
“Televisione felliniana sembrerebbe un ossimoro, ma non lo è: mi sembra che la domanda sia pertinente ed anche acuta. In realtà io penso che sia possibile grazie ai nostri autori migliori, come appunto Sorrentino, che si sta dedicando alla serialità televisiva. Sorrentino è l’autore di maggior talento che abbiamo in Italia. Il suo stile è indiscutibile. È anche un regista che i film li sa scrivere molto bene, ma forse il suo mondo, la sua visione del mondo, che possiamo chiamare Weltanschauung, è ancora in formazione, il suo corredo esistenziale deve ancora definirsi meglio. Federico aveva costruito un universo, una galassia; i suoi film vanno accostati l’uno all’altro e solo così possono essere ben compresi; “l’Opera di Fellini” è un unico film diviso in tanti film. Per Sorrentino non è così: ogni film è un film a sé stante. Però sa farli molto bene, sa imporre i suoi tempi, la sua ottica cinematografica. Ha una maniera molto precisa di girare, molto riconoscibile, che è poi il segreto dello stile… quando tu riconosci l’autore che c’è dietro.
Sorrentino è un felliniano scatenato: quando l’ho conosciuto ci siamo parlati a lungo, e mi sono meravigliato di quanto felliniano potesse essere. Uno che possiede tutti i libri di Fellini, anche i testi più rari, introvabili. Un cineasta che ha costruito il suo amore per il cinema attraverso la visione di Fellini, attraverso un imprinting che l’ha segnato profondamente. Però non è un imitatore, al contrario di ciò che viene a volta sostenuto con un po’ di superficialità. È un post moderno, uno che amando Fellini ovviamente lo cita in tutti i modi. Ma non è affatto un imitatore. Ha il suo stile e persegue quello. The young pope è straordinario sia come idea che come realizzazione. Credo che sia in qualche modo l’erede di Fellini, anche se non a livello ideologico. Ad esempio anche Peppuccio Tornatore è bravissimo, però è più un metteur en scène vicino a Visconti, nella direzione del grande costruttore che sa gestire alla perfezione la macchina cinematografica, che è in grado di affrontare i più grandi racconti, che so, Il pianista sull’oceano. Ma non ha quella peculiarità che invece possiede Sorrentino”.
Lei ha assistito agli ultimi anni della vita di Fellini e, per descrivere ciò che le ha suscitato la sua morte, ha usato la metafora della supernova. Dev’essere stato molto doloroso vedere un uomo di una tale inventiva dover far i conti con la prigione del proprio corpo…
“Hai usato la parola giusta: era una prigione. Quello che posso testimoniare – l’ho scritto nei miei libri – è proprio la sensazione che venisse meno una quantità di energia così enorme da creare una specie di risucchio, una vertigine. Negli ultimi anni Federico era anche considerato un po’ un oracolo: qualsiasi cosa succedeva nel Paese veniva puntualmente compulsato dalla politica, ai fenomeni culturali, alle trovate giornalistiche. Era diventato una specie di padre fondatore della Patria. Un ruolo da cui rifuggiva per istinto, che accettava meno volentieri, perché non voleva essere liquidato come una istituzione pubblica. Siccome l’arte, come il miracolo, è secondo me una questione di energia, Federico rappresentava quello che vedeva attorno a sé nella maniera più elegante ed unica possibile: la sua garanzia di originalità, la sua capacità inventiva, l’immaginazione, la psicanalisi… navigava in mezzo a questo immenso oceano, come fosse un grande nocchiero. Era come se questa enorme quantità di energia solare, di un astro, che lui rappresentava nella vita pubblica ed artistica, improvvisamente si fosse spenta. E questo, se tu fossi stato a Roma, l’avresti vissuto proprio sulla tua pelle: l’impressione era che si fosse spenta la luce, come nella tradizione evangelica della Crocifissione di Gesù. L’improvvisa certezza che qualcosa di molto impressionante fosse appena successo nell’intera umanità; la sensazione del risucchio di una energia che improvvisamente scompare, della nova, di un buco nero che noi non conosciamo nella sua configurazione. Di fronte alle opere dei grandissimi artisti il nostro vissuto si intensifica di un’energia che prima non avevamo, come può accadere di fronte alla Cappella Sistina di Michelangelo. Ecco, Fellini era uno di questi artisti assoluti. A mio giudizio, Federico è stato il più grande artista del ’900. Gli americani dicono: “la prima parte del ’900 è stata segnata da Charlie Chaplin, la seconda da Federico Fellini”. Quello che ha fatto Fellini non è soltanto cinema, ma donare un terzo occhio all’umanità. A volte sono stato in contrasto con Rimini perché avrei voluto che vedesse in lui il faro della città, che gli fosse riservato il più grande mausoleo, come a una divinità. Che costruissero in suo nome il Beauburg d’Italia. I grandi registi fanno i film, come i Santi fanno i miracoli: ci servono entrambi per andare avanti. Perché allora non avvolgere tutta Rimini in quella sua magia? Dobbiamo spingere le persone a rivedere i film di Federico. Speriamo che vada in porto questo progetto di riproporre tutta l’opera di Fellini per il centenario della nascita (nel 2020 – ndr), così i 23 film e mezzo di Fellini potranno essere restaurati in 4K e diffusi di nuovo in tutto il mondo. Bisogna che se ne parli, come abbiamo fatto con questa bella chiacchierata”.