Il 16 agosto 1468 Sigismondo Pandolfo Malatesta aggiunge al suo testamento, redatto una prima volta il 23 aprile 1467, un codicillo con cui lascia le sue proprietà di Ragusa (oggi Dubrovnik) ai figli naturali Lucrezia e Pandolfo, e in mancanza di loro discendenti maschi, di Isotta e a Sallustio, figlio avuto da Vannetta de’ Toschi; se anche questi non avessero avuto eredi maschi, il tutto sarebbe andato alla fabbrica “Ecclesie Sancti Francisci de Arimino”, cioè il cantiere che sta costruendo il Tempio Malatestiano. Lucrezia e Pandolfo erano nati dalla relazione di Sigismondo con la bolognese Gentile di Ser Giovanni. Lucrezia, promessa in un primo tempo a Cicco Ordelaffi dei signori di Forlì, finirà invece sposa di Alberto, fratello di Borso d’Este duca di Ferrara. Di Pandolfo non si sa altro, dunque dovette scomparire di lì a poco. L’atto viene suggellato in casa di Isotta degli Atti: la moglie di Sigismondo si prendeva cura dei figli legittimi come di quelli illegittimi. Costumi e leggi ancora in auge in Italia negli anni Sessanta del XX secolo nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio erano meno generosi rispetto a quelli di mezzo millennio prima.
Ci sarebbe anche Roberto, il maggiore di tutti figli, avuto dall’amante fanese Vannetta de’ Toschi ma legittimato dal Papa fin dal 1450; a 27 anni è un uomo fatto e da molto tempo combatte valorosamente a fianco del padre. Per lui non c’è quasi nulla, se non il dovere di difendere la matrigna, i fratellastri minori e quel pochissimo che resta della signoria: la città di Rimini e il suo contado.
Sigismondo ha 51 anni; non pochi per l’epoca. E davvero molti per chi come lui impugna le armi sui campi di battaglia da quattro decenni. L’ultima campagna, la “crociata” per conto dei Veneziani contro i Turchi in Morea (il Peloponneso), gli ha procurato non solo poca gloria, ma anche la malaria. Unica personalissima soddisfazione, la conquista di Mistrà, presso Sparta, dove aveva trafugato, portato a Rimini e posto in un’arca del Tempio i resti di Giorgio Gemisto Pletone, il filosofo che considerava suo maestro.
Il 7 ottobre, “confessus et contritus”, il Signore di Rimini muore in Castel Sismondo. Viene sepolto il 9 ottobre 1468 nella chiesa di San Francesco, al cui completamento ha dedicato fino all’ultimo pensiero.
Il sepolcro non va però dove dove Sigismondo avrebbe voluto, cioè in uno dei due archi della facciata; viene collocato accanto alla prima Cappella, in una posizione non certo primaria. Il sarcofago è nudo e, per l’epoca, sobrio nelle decorazioni; il ritratto scabro; l’iscrizione secca, nessuna concessione alla retorica:
SUM. SIGISMUNDUS. MALATESTAE. E. SANGUINE. GENTIS
PANDULFUS. GENITOR. PATRIA. FLAMINIA. EST
VITAM. ORBIT. VII. ID. OTOB. ETATIS. SUE. ANN. I. ET. L. MENS. III. D. XX
ET. MCCCCLXVIII
Il corpo del Signore viene deposto nell’ultima dimora rivestito di una camicia di lino grosso, un corpetto di velluto decorato d’oro, un’alta fascia con una grande fibbia e il cingolo di metallo dorato, un abito di broccato d’oro con fondo color tanè foderato di taffetà, un ferraiolo (mantello) lungo fino a metà coscia; un pugnale, due speroni da torneo, una lunga spada dall’impugnatura dorata, alcune medaglie. Questi oggetti e soprattutto gli abiti saranno studiati accuratamente da Elisa Tosi Brandi (come in “Le vesti funebri di Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417-1468). Alcune considerazioni” in “Penelope. Arte, Storia, Archeologia”, I, Rimini 2002).
Gaspare Broglio, che gli fu fedele fino all’ultimo, volle lasciare di lui questo ricordo («e pare che pianga», come giustamente chiosa Oreste Cavallari in “Sigismondo Malatesta”, 1978):
«Fo uno delli più notabili capitani che fusse stato per longo tempo nelle parti d’Italia; e quello che con degno stile governò suo exercito; et sempre, mentre che ‘l fo alli servitù d’alcuna potentia, sempre acquistò honore e gran fama. Della persona sua fece nell’Arte militaria cose molto laudevoli, e degne di memoria, ricevendo più victorie. La sua appariscentia, se el fosse stato fra cento Signori, saria stato electo sempre superiore di tucti. L’aspetto suo era feroce e rigido: crudelissimo contro li suoi nemici: era di persona più che comunale; el suo riferire era un altro Tullio (Cicerone), assai competentemente era dottato di scientia, e di senno naturale. Fo Generale Capitano della Santità di Papa Eugenio, et similmente della Signoria di Venetia, e delli Signori Fiorentini, e della Comunità di Siena. Et anque el Duca Filippo lo fece Governatore soprastante delle sue gienti».