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Sugli scogli di Rimini incontravamo Guido e Marino, Demos e Glauco, Curzio e Floriano

In un’esistenza insidiata dall’inesorabile trascorrere del tempo, necessariamente tormentata dal problema del poi, del domani, di quello che sarà, s’ingenera a tratti, una struggente nostalgia per tutto ciò che non è più, per le cose perdute, per un microcosmo scomparso.

Una senile tenerezza mi invade allorché ripenso agli amici che mi hanno lasciato e, proprio nel tentativo disperato e velleitario di salvare dall’oblio quell’intero mondo perduto, in una stordente nostalgia di giovinezza, quasi “maturando verso l’infanzia”, non posso evitare, tra reiterati attacchi di ipocondria e di rimpianto, di riandare a quelle lunghe estati, quando sugli scogli del molo di levante, si davano appuntamento “per il bagno” Demos Bonini, Guido Nozzoli, Curzio Quondamatteo, Glauco Cosmi, Marino Vasi, Floriano Biagini.

Per noi, che a quel tempo eravamo giovani, insicuri, spaesati era fantastico poter partecipare, silenziosi e invisibili, a quegli intricati orditi dialettici, alle giocolerie verbali, agli incastri di storie, alle girandole di analogie, agli aneddoti che incessantemente, con portata niagaresca, si riversavano, nell’acqua azzurra dove sbigottita nuotava la muggine tenuta al calappio dal fiocinatore Omero. Il passato è il grande scultore delle nostre personalità e il recupero della memoria ha il potere di consegnare al presente le grandezze e le meschinità degli uomini, riproponendo un tempo filtrato attraverso le innumere distillazioni dei pensieri, dei comportamenti, delle emozioni.

Non è possibile oggi, ricreare ne` intendere la magia di quel luogo se non si è vissuta l’atmosfera particolare che permetteva a qualsiasi detto, a qualsivoglia racconto di uscire dalla bieca banalità, dal grigiore iterativo, per innalzarsi  verso la più autentica poesia. Intorno a quei, per me tanto amati personaggi, danzavavano i fantasmi del passato: i partigiani con lo Sten in spalla, i fascisti in camicia nera, gli antichi maestri pittori, le “macchiette” riminesi: Nasi, Limoun, Silvio Crostelli, il brigadiere generale Christian de Castries che comandava i Legionari francesi a Diem Bien Phu, il bandito Giuliano con la coppola in testa, il colonnello Luca dallo sguardo sfuggente.

Demos, dopo essersi a fatica, uscendo dall’acqua, issato sullo scoglio (Curzio sosteneva che: “Se la fadiga la fasess bon, i sgnur i l’avria fata da un pez!“), dava inizio alla sua favola, costantemente sospeso, da un lato, tra toni leggeri, comici che a tratti sfioravano la più irriverente parodia, e dall’altro la meditazione amara, quasi religiosa sul mistero dell’arte. Certe volte, ascoltando i suoi discorsi, lentamente sussurrati, si aveva la sensazione di entrare nelle botteghe rinascimentali e pareva che gli antichi maestri della Firenze laurentina si materializzassero come per incanto e si aveva la certezza, lì, sotto il sole a perpendicolo, tra stridenti nuvoli di gabbiani, che la ragazzina dal bronzeo, sottile, agile corpo, altri non fosse se non una modella uscita dalla bottega del Verrocchio.

Anni ’50. Rimini, Demos Bonini con Sergio Zavoli

Demos, affabulatore magnetico e fascinoso, sapeva che la vita è di per sé assurda, insignificante per cui si affidava a qualsivoglia appiglio onirico, quasi volesse prender le distanze dalla responsabilità dell’esistenza e tra immaginazione, spinte irrazionali, sciorinava nella conversazione i più arditi artifici verbali. Come un mago, disponeva ben in vista i propri incantesimi e, dopo aver stupito gli astanti, con una battuta dissacratoria, rivelava, sul posto, il trucco dei suoi “miracoli”.

Guido Nozzoli nelle conversazioni riversava il compiacimento di una cultura raffinatissima e sterminata. La sua professione di inviato speciale lo aveva portato in ogni angolo del globo terracqueo, parlava diverse lingue, ed aveva conosciuto i più importanti personaggi del XX secolo. Di alchimia, di scienze esoteriche, di astrologia, di storia era conoscitore profondo.

Guido Nozzoli e Sergio Zavoli

Nonostante il lavoro lo portasse ineluttabilmente verso la politica e la più prosaica cronaca, Guido, si sentiva magneticamente attratto dagli arcani. I temi del sacro Graal, il tesoro dei Templari, i Pomi d’Oro delle Esperidi, il rito, l’alfabeto come conoscenza mistica, il golem, il mistero dei numeri, affioravano nella continua, caprioleggiante dissertazione che aveva nell’atlante il punto d’incontro tra il nostro giornalista e il mondo.

Regioni e stati, uomini politici, scrittori, capi militari, venivano riproposti ed in questa geografia antropica si coniugavano il Viet-Nam ed il generale Westmoreland,  Ho Chi Minh (“Colui che illumina”), e l’anarchico Amilcare Cipriani, un sonetto di Petrarca e la Cecoslovacchia invasa, l’Africa diventava il tropicale parco degli oggetti misteriosi, nel quale era possibile, tra mosche, scorpioni e zanzare, veder spuntare un medico napoletano, diverso e bizzarro: il prof. Saggese il quale, da tempo, si era appropriato del segreto dell’eterna giovinezza.

Il mappamondo ruotava sotto le dita di Guido e quando non era più sufficiente interveniva la fantasia a rimodellarlo fino ad adeguarlo alle dimensioni dei suoi bisogni fiabeschi. La figura alta, sottile e severa del professor Marino Vasi, aveva di per se stessa un non so che di impervio e pareva che da quell’altezza le di lui argomentazioni si ponessero di diritto quali custodi dei più autentici valori della ragione. La matematica era la fortezza inespugnabile da cui partiva il suo “sermo generatur ad intellectu”  e noi tutti avevamo la certezza che solo un matto ne avrebbe potuto negare la validità, e solo uno sciocco avrebbe escluso che avesse un riferimento oggettivo. Tuttavia quella perfezione dialettica, quella precisione sillogistica, quell’argomentare freddo, con intavolature matematiche e geometriche, esemplare per completezza ed essenzialità, doti che ancor oggi caratterizzano ogni ragionamento di Marino Vasi, avevano il potere di intimorirci per cui, allorché con lunghi passi, gli occhi protetti da enormi e spesse lenti scure, quasi accecato dai riverbanti barbagli del sole sull’acqua, faceva la sua comparsa Glauco Cosmi, per tutti noi era una epifania.

25 settembre 1983. Rimini, Teatro Novelli. Glauco Cosmi con Federico Fellini

Poteva o no Glauco fischiettaci l’overture del Don Giovanni di Mozart, poteva o no procurarci vertigini malheriane accennando sottovoce all’inizio della Seconda sinfonia, poteva o no incantarci con storielle esilaranti esibendo un vero e proprio arsenale di facezie, di aneddoti, che solo l’avesse voluto veramente, l’avrebbero portato, se raccontate nei giusti luoghi, ad essere il comico più intelligente ed ironico circolante in Italia. Egli stesso era di per sé una presenza appartenente alla schiera dei lacrimosi Pierrot, dei giocolieri, dei guitti, dei fini dicitori: in abiti neri, in un’attitudine accigliata che faceva più risaltare le fiammeggianti invenzioni verbali di cui era capace, pareva duellare continuamente con la plumbea gravezza del vivere e fatalmente, comunque andassero le cose, riusciva ad esser lui il vincitore, allorché alla fine di quegli strabilianti monologhi che erano veri capolavori di intelligenza comica, strappava agli ascoltatori il riso più sincero.

Gli scogli non sono più frequentati. Per noi, ormai, l’adesione al mondo della “marina” è ostacolata da avveniristici, dissacranti progetti. Le visioni si intrecciano ai pensieri, ma gli enormi tendoni deturpanti, le distese grigie di cemento, la folla che scivola, ignara e sbalordita, confusa nel proprio peregrinare, la devastazione e lo scempio ambientale, hanno fatto sì che non resti altra alternativa che invocare il sonno dell’oblio. Secondo Aristotele il sonno era dovuto ad un raffreddamento del cuore. Sarà per questo che i vecchi non dormono mai? 

Enzo Pirroni

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