Nel 1569, il 26 febbraio, papa Pio V dà il bando agli Ebrei da tutte le sue terre, ad eccezione di Ancona e Roma. Ne è ovviamente interessata anche Rimini insieme a tutta la Romagna.
Non è il primo atto di persecuzione degli Ebrei in Italia, né sarà l’ultimo. Ma questo passo di papa Ghisleri, che era stato Inquisitore dei Domenicani, segna certamente una svolta decisiva nell’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronto degli israeliti. Svolta dettata dal Concilio di Trento (terminato nel 1563) e dalla conseguente Controriforma, che vide in Pio V uno dei principali artefici e promotori.
Si inaugura così una delle trame più infamanti della storia europea. E non accade nei remoti “secoli bui” del “barbarico” medio evo, quando verso le fedi minoritarie non erano mancati attriti né atrocità, ma un modo per vivere assieme si era pur sempre trovato. Invece, è nel pieno del raffinato Rinascimento che si scatena più virulento il morbo dell’intolleranza. Prima, mai si era arrivati a istituzionalizzare in tal modo la persecuzione; solo dal XVI secolo in poi si dà il via alla “pulizia etnica”, che in Spagna era invocata con lo stesso nome di oggi, “limpieza”.
Ebrei e mussulmani, “streghe” e protestanti, devono semplicemente essere cancellati dalla faccia della terra, al pari di chiunque osi credere in qualcosa che non è fissato dall’autorità suprema di Roma. A loro volta, le chiese riformate da Lutero sapranno dar prova di altrettanta inclemenza, sia fra le loro differenti varianti che contro i cattolici e gli ebrei; e contro le “streghe” anche più ferocemente e più a lungo di chiunque altro, perfino nelle colonie del Nuovo Mondo. E le guerre di religione insanguineranno l’Europa per un intero secolo dell’era “moderna”, con stragi e distruzioni da far impallidire le imprese dei “barbari” di mille anni prima.
Rimini dedicò a Pio V una meravigliosa statua nella piazza principale. E cosa accadde agli Ebrei? Scrive Antonio Montanari (Il Rimino): “La prima notizia che documenta una presenza ebraica in Rimini risale al 1015 e riguarda il teloneo «judeorum» ovvero l’appalto dei dazi d’entrata nel porto, del quale si parla pure in un testo del 1230. In entrambi i casi l’appalto è condiviso con altri soggetti locali, il monastero di San Martino nel 1015 ed i Canonici nel 1230”. Quindi una presenza che attiene a un’attività fondamentale come la riscossione del dazio sul porto. Una posizione che non si acquisisce dall’oggi al domani: facile supporre che gli Ebrei fossero qui già da molto prima, forse da secoli.
Per tutto il medio evo svolgono un ruolo di assoluto rilievo. Si dedicano innanzi tutto al credito e nel ‘300 è documentata una rete di agenti finanziari delle varie piazze dove i prestiti potevano essere restituiti. Oltre a Rimini comprendeva Perugia, Mantova, Fano, Ancona, Urbino, Forlì, San Marino, Santarcangelo, Montefiore e Gradara (M. G. Muzzarelli, Rimini e gli Ebrei fra Trecento e Cinquecento, in «Romagna arte e storia», 10/1989).
Prima di quel 1569, i riminesi avevano già manifestato un particolare zelo nell’angariare gli Ebrei. Già “il 22 luglio 1548 il Consiglio generale della città obbliga gli Ebrei riminesi a non abitare fuori delle tre contrade dove già si trovavano”: in anticipo di un anno sulla bolla di papa Paolo IV «Cum nimis absurdum» che il 17 luglio 1555 istituisce il ghetto in tutto lo Stato della Chiesa, come ha già fatto nel 1516 la Serenissima Repubblica di Venezia.
Nasce così il Ghetto di Rimini, corrispondente circa all’odierna via Bonsi dai bastioni sino all’oratorio di Sant’Onofrio. Il ghetto è chiuso da tre portoni o cancelli, che al tramonto vengono sbarrati: uno poco oltre S. Onofrio, l’altro sul lato opposto della medesima contrada (via Bonsi) e il terzo nell’attuale via Cairoli prima degli Agostiniani. Le tre contrade citate nel 1548 erano quelle di San Silvestro (chiesetta scomparsa nel 1583 che sorgeva in mezzo all’odierna piazza Cavour), Santa Colomba (il duomo antico di Rimini, nell’attuale piazza Malatesta) e San Giovanni Evangelista (Sant’Agostino). Tutti luoghi centralissimi e attigui alle residenze del potere.
Perché gli Ebrei, gli unici in grado di procurare denaro liquido in ogni momento di bisogno, servivano eccome. Per primo, allo stesso Comune, afflitto da cronica mancanza di contanti. E servivano il loro artigianato specializzato, la loro sapienza giuridica, medica e magica, non secondaria in quelle epoche, l’esperienza commerciale e soprattutto la rete di relazioni.
Se poi tutto andava storto, di nuovo gli Ebrei venivano utili: come capri espiatori, causa prima di ogni guaio con la loro presenza “contaminante” e pertanto puntuale bersaglio verso cui indirizzare la cieca rabbia popolare.
“La delibera del 22 luglio 1548 – prosegue Montanari – prevede per gli Ebrei anche l’obbligo di portare un distintivo. Ma non è una novità. Già il 13 aprile 1515 il Consiglio riminese aveva stabilito il dovere da parte loro d’indossare una berretta gialla se maschi ed un qualche «segno» (una benda anch’essa gialla) se donne. Il precedente più antico risale al 1432 quando Galeotto Roberto Malatesti aveva ottenuto da papa Eugenio IV un «breve» che introduceva per loro il «segno» di distinzione obbligatorio”.
E l’aberrante lista del 1548 prosegue con altre prescrizioni. Per esempio, gli Ebrei a Rimini non possono possedere altri beni immobili se non la casa che abitano e la bottega dove lavorano. E ancora, non possono «toccar frutti in piazza, né metter le mani ne’ panieri, cesti o some». Durante le fiere potevano trattare solo determinata merce e in luoghi ben delimitati: per esempio nella più importante di Rimini, la fiera di San Giuliano, era loro consentito commerciare solo stracci e i loro banchi dovevano stare sul Corso presso il torrione di San Pietro (o “di Galeotto”, che sorgeva all’estremità del ponte di Tiberio verso la città). D’altra parte spettava a loro, fin dal 1489, finanziare la difesa costiera contro i Turchi con una tassa apposita, come fossero loro alleati. E già nel nel 1429 e nel 1503 c’erano stati assalti ai banchi ebraici.
Il 13 aprile 1515 nel Consiglio di Rimini si discute seriamente “la proposta di bandire gli Ebrei dalla città quali nemici della Religione e promotori di scandali nel popolo”. Ci sono tumulti, arrivano armati per proteggere gli Ebrei. Proposta accantonata, ma intanto i riminesi chiedono allora che siano gli Ebrei stessi a pagare quelle truppe.
Ma chi sobilla quei tumulti? Già “nel 1422 papa Martino V aveva fatto divieto agli Ordini mendicanti di provocare sommosse popolari contro gli Ebrei, accusati di avvelenare le fonti dell’acqua e di produrre azzime intrise di sangue umano (R. Segre, Gli Ebrei a Ravenna nell’età veneziana, in «Ravenna in età veneziana» a cura di D. Bolognesi, 1986)”.
Sono politiche, anche quelle papali, oscillanti fra le tentazioni più integraliste e considerazioni più pratiche, se non più umane e cristiane. Se nel 1442 un altro pontefice, Eugenio IV, “aveva pubblicato una «bolla» per interrompere ogni rapporto economico fra Ebrei e Cristiani, ordinando agli «infedeli» di vivere isolati e segregati, di portare il solito segno distintivo, di restituire le usure percepite e di non esigerne più per il futuro”, a Rimini Sigismondo Malatesta nel 1462 per la fabbrica del suo Tempio può tranquillamente chiedere e ottenere un prestito da “Abramo figlio di Manuello di Fano”. A metà del quindicesimo secolo Rimini «continua a rappresentare il principale centro finanziario ebraico della Romagna».
A Rimini gli Ebrei seppelliscono i loro morti in un proprio cimitero fuori Porta S. Andrea («Orto degli Ebrei» , documentato almeno dal 1507). Hanno due, se non tre sinagoghe (una “vechia” in contrada San Silvestro, presso l’attuale Vecchia Pescheria, una “magna” nell’attuale via Sigismondo, una terza, che forse sostituì la seconda, presso S. Agostino). Ed è la Municipalità stessa che il 24 marzo 1540 si vede “costretta ad intervenire per difendere gli Ebrei, con l’intimazione ai Cristiani di non colpirne le case ad usci e finestre. Nello stesso anno è concesso loro di tenere un banco a Rimini, Verucchio e Montescudo“.
E quanti sono questi tenutissimi Ebrei? «Da un atto notarile del 1556 sappiamo che le famiglie ebree riminesi erano allora dodici». Sono odiati perché usurai, come ancora comunemente si crede? «Solitamente gli Ebrei praticavano tassi notevolmente inferiori agli usurai cristiani» (A. Falcioni, La Signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesti, 1. L’economia, Rimini 1998).
Nel 1557 il ghetto di Rimini è cosa fatta. Chi se lo può permettere, però, non ci va: per piegare gli inflessibili dogmi della Controriforma basta pagare. Ed ecco che nel 1562 “la Municipalità proibisce (29 aprile) ai Cristiani di abitare nella contrada degli Ebrei, ma autorizza (14 ottobre) il ricco Ebreo Ceccantino di avere casa «extra ghettum»”.
E si arriva al bando del 1569. Però vent’anni dopo gli Ebrei a Rimini ci sono ancora. La sempiterna italica burocrazia dà loro una mano, insieme ai soliti motivi di convenienza. Il 19 settembre 1590 in Consiglio si tenta di nuovo l’espulsione degli Ebrei superstiti, equiparati a «vagabondi e forestieri», ma non si viene a capo di nulla.
Gli eventi però precipitano. Nel 1615 il ghetto di Rimini è distrutto da una rivolta popolare. Come di consueto, la violenza subìta è imputata alla vittima. Pertanto “alla «perfida gens Iudeorum» è ordinato di lasciare Rimini, e le porte del ghetto sono distrutte su richiesta di alcuni nobili. Commenta (nel 1888!) Carlo Tonini: «Così la Città nostra ebbe il contento di vedersi liberata da quella odiata gente»“.
Il “contento” è però di breve durata. Già nel 1656 a «un tal Hebreo Banchiere» non si lesinano cortesie («il gentilhuomo Hebreo di questa Città») e ben volentieri gli si concede di aprire un banco. Dieci anni dopo il Consiglio di Rimini considera la proposta di chiedere al Papa di ricostituire il ghetto per gli Ebrei ad «utile e beneficio» della città; delibera bocciata (31 contrari, 14 a favore), ma intanto se ne parla. E poi nel 1693 si autorizzano «alcuni commercianti ebrei “soliti a venire a servire con le loro mercanzie” a Rimini» ad inoltrare al Pontefice la supplica per poter rientrare in città. Non si conosce la risposta.
Fatto sta che cent’anni dopo, nel 1799, gli Ebrei a Rimini sono sempre qui e hanno “fondaci”. Dunque su di loro si scatena l’ennesima esplosione di violenza: questa volta è Giuseppe Federici a guidare la marineria riminese insorta contro i francesi di Napoleone (che aveva soppresso i ghetti, sancite la libertà di religione e l’uguaglianza di fronte alla legge a prescindere dal credo). E dunque contro il bersaglio più inerme e il bottino più promettente: i magazzini dei commercianti israeliti che gestivano almeno “cinque ditte, intestate a Moisé di Bono Levi, Samuel ed Elcana Costantini, fratelli Foligno, Samuele Mondolfo, ed Abram e Samuel Levi”. Il 30 maggio i rivoltosi per la Santa Fede (celebrati in una lapide, enfatica quanto reticente, in via Destra del Porto) fanno man bassa in due botteghe che hanno l’inespiabile colpa di appartenere ad Ebrei e che si trovano (Zanotti, «Giornale» del 1796) «ne soffitti del Palazzo de Conti Bandi […], situato lungo la via Regia in faccia al palazzo del conte Valloni», cioè di fronte all’attuale Cinema Fulgor, in Corso d’Augusto.
Solo nel 1861, con la caduta del governo pontificio e la proclamazione del Regno d’Italia, gli Ebrei anche a Rimini potranno godere gli stessi diritti degli altri cittadini. Salvo la non trascurabile parentesi delle leggi razziali del 1938, quando oltre alle altre discriminazioni qui si dovettero vedere anche le zone di spiaggia riservate agli Ebrei: tutte le altre erano loro proibite.
Rimini nei confronti degli Ebrei ha saputo scrivere alcune delle pagine più vergognose della sua storia millenaria. Non solo per il sangue versato, che pure ci fu. Ma anche per la straordinaria ottusità che i riminesi intesero manifestare, fino ad andare contro i loro stessi interessi. E solo per voler eccellere in conformismo, meschinità e ipocrisia.